Gina è bionda, piuttosto seria, molto responsabile. Gina ha nove anni, due fratelli più piccoli dei quali spesso deve occuparsi, trascinarli con sé a scuola, vestirli, preparargli colazioni e pasti, portarli in piscina, senza pagare, passando attraverso uno spiraglio nella rete. Ha alcune bambole bionde delle quali si prende grande cura, poi un coniglio bianco snodato che le piace molto, come le piacerebbe imparare a nuotare. Gina ha anche una mamma bionda incinta che pare una ragazzina, con i capelli ossigenati un po’ stopposi, le t-shirt e i calzoncini, una mamma con tanti problemi, di alcol, di addiction, di instabilità, con un fidanzato che spesso scompare e sostiene di non essere un “family man”. Una mamma che c’è, quando si è tutti addormentati nel lettone uno sopra l’altro, che ama i suoi bambini, ma non sa crescerli, non può aiutarli e finisce per trascinarli nell’interminabile catena di povertà e disadattamento alla quale si è trovata legata lei. Come prima di lei sua madre, la nonna di Gina, una signora ancora giovane in maglia leopardata che fa la sua vita con discreta noncuranza.
L’austriaca Ulrike Kofler (già montatrice, per esempio di Il corsetto dell’imperatrice) scrive e dirige il suo secondo film, dopo La vita che volevamo (2020), concentrandosi questa volta ancora più da vicino sui ragazzi. Anzi su Gina, che dà il titolo al film, che ci parla immediatamente in voce off, che in pratica ci accompagna attraverso la propria vita e quella della sua famiglia. I litigi come i gesti affettuosi, le assenze come i momenti felici, la musica a palla in piena notte oppure fare gli gnocchi insieme alla figlia, mangiare la pizza che ha portato il fidanzato della mamma e poco dopo sentirlo dire “non me ne frega niente dei bambini”. Kofler non esagera, non “melodrammatizza”, gioca sulla lucidità di una bambina che (come tutti i bambini) vede e sente molto di più di quanto i grandi non pensino (e non ricordino di se stessi). La piccola Emma Lotta Simmer recita per la prima volta ed è molto brava, “giusta” per la parte, come in fondo sono tutti gli interpreti, anche se alcune figure e alcune situazioni sono un po’ scontate (la signora dei servizi sociali per l’infanzia, le scene della mamma completamente fatta che balla in discoteca, mentre fa quasi tenerezza quell’inquadratura della mamma e il fidanzato seduti di spalle sul dosso della collinetta sotto la quale si staglia la città industriale, che fa tanto anni 60). Ma probabilmente sono solo personaggi e situazioni molto vicini alla realtà, davanti alla quale Kofler si pone con la stessa lucida determinazione della sua piccola protagonista: la affronta, giorno per giorno, di petto, cercando di restare ferma nel proprio evidente desiderio di “normalità”. Anche se ogni tanto Gina perde l’equilibrio e, credendo di giocare, rischia di far del male a un’altra bambina, più piccola di lei e soprattutto con una mamma che pare, almeno a lei, “normale”, nel momento forse più interessante e inquietante del film. Un onorevole tentativo di guardare e ascoltare il mondo attraverso gli occhi e gli orecchi di una bambina.