Tra i grandi registi della sua generazione, i Wajda, i Munk e i Kawalerowicz, Woiciech Jerzy Has (Cracovia, 1925 - Łodz, 2000) é probabilmente il meno conosciuto fuori dalla Polonia, comunque quello al quale la critica ha riservato un'attenzione episodica e poco approfondita. Il suo cinema viene definito solitamente letterario, e non senza motivo, essendosi nutrito sia di scrittori polacchi contemporanei, i vari Hłasko e Dygat, che di classici come Potocki, Schulz e, fuori dai confini nazionali ma sempre in ambito slavo, Cechov. Il suo prendere spunto dal testo letterario esclude tuttavia l'adeguamento ai suoi cliché, a favore di un rapporto complesso e dinamico, di costante reinvenzione.
Già nei cortometraggi è possibile riscontrare una prima dichiarazione di poetica. Harmonica (t.l.: Fisarmonica, 1948), che racconta di un bambino e dello strumento musicale oggetto dei suoi desideri, ha per sfondo i vicoli di una città povera, immersa in un' atmosfera cupa e onirica. Moje miasto (t.l.: La mia città, 1950) è una dichiarazione d'amore per Cracovia, le sue strade e piazze che, a prescindere dal riferimento pressoché obbligato alla ricostruzione postbellica, si traduce in un toccante documento che trasuda nostalgia, sentimento che sarà la costante di molte opere a venire.
Il regista esordisce nel lungometraggio nel 1957 con Pętla (t.l.:Il cappio), da un romanzo di Marek Hłasko, sorta di wilderiano lost week end in cui un alcolizzato tenta invano di sottrarsi alla schiavitù della bottiglia, in un interno soffocato da specchi deformanti e oggetti cristallizzati, sullo sfondo di vicoli e bar di una Varsavia spettrale. La circolarità e la coazione a ripetere come struttura portante escludono riferimenti al contesto sociale, aspetto che costa all'autore più di una critica degli apparati. Forse anche per questo motivo, qualche concessione in più alla mainstream politica ritroviamo nel successivo Poźegnania (t.l.: Gli addii, 1958), dal romanzo di Stanisław Dygat, sulla eccentrica storia d'amore tra uno studente di buona famiglia e una taxi girl negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Ma la messa in scena di una mediocre aristocrazia destinata a scomparire insieme a chi approfitta della sua decadenza è immersa in atmosfere metafisiche, accompagnate da una certa ironia nazionale, come la sottolineatura dell'insegna Quo Vadis sull'alloggio in cui passano la notte i due protagonisti. Negli stessi anni è ambientato Wspólny pokój (t.l.: La stanza comune, 1959), dal romanzo omonimo di Zbigniew Uniłowski, nel quale i bohémiens che dividono un modestissimo alloggio si interrogano sugli eterni problemi dell'esistenza, bevono e si lasciano morire, oscillando tra nichilismo e disperata ricerca di significato al loro brancolare nel buio. Il film precisa ulteriormente la sfera di interessi di Has nel senso di una critica rivisitazione del passato, nella coscienza che il tempo è la misura di tutte le cose e la dimensione per eccellenza a cui tutto va riferito. La ricostruzione del passato in funzione di autocoscienza angosciosa e necessaria ma non necessariamente dialettica caratterizza anche Rozstanie (t.l.: La separazione, 1960), commedia sentimentale non priva di spunti ironici in cui un'attrice quarantenne fa ritorno nei luoghi dell'adolescenza e cerca nel fuggevole rapporto con un ragazzo l'illusorio conforto al disseppellimento delle proprie memorie.
Con Jak byċ kochaną (t.l.: Come essere amata, 1962), da un racconto di Kazimierz Brandys, e Szyfry (t.l.:Codici cifrati, 1966), Has si confronta infine con la tragedia della guerra e dell'occupazione nazista. Ma anche qui l'interesse del regista non va tanto alla Storia con la maiuscola quanto ai riflessi psicologici e morali che essa determina sui personaggi, impegnati in una vana ricerca di identità che confina con l'autodistruzione. Da Bolesłav Prus, autore del romanzo da cui Jerzy Kawalerowicz ha tratto Il Faraone (Faraon, 1965), deriva Lalka (t.l.: La bambola, 1968), primo impatto con il colore del regista, che sviluppa ulteriormente la propensione per tematiche angosciose nella messa in scena del rapporto sadomaso tra un parvenu e un'aristocratica decaduta sullo sfondo della Varsavia del 1870, con raffinatezze del décor ispirate ai maestri della pittura fantastica. In Nieciekawa historia (t.l.: Una storia noiosa, 1982) Has si misura poi in maniera autorevole con uno dei più grandi racconti di Anton Cechov.
Abbiamo saltato cronologicamente Złoto (t.l.: L'oro, 1961) non solo perché privo di derivazione letteraria, ma soprattutto in quanto è l'unico film del regista di ambiente operaio (la gigantesca miniera di Turoszów), nel quale, nonostante il soggetto, dimostra <<che il suo dramma delle illusioni... può venir messo in scena perfino nel luogo che lui ha meno posseduto>> (Sobolewski).
Citiamo infine, obbligatoriamente, i due film più importanti di Has, gli unici distribuiti in Italia grazie alla Lab80, Manoscritto trovato a Saragozza (Rękopis znaleziony w Saragossie, 1964) e La clessidra (Sanatorium pod Klepsydrą, 1973), primi movimenti di una trilogia fantastica destinata secondo l'autore a concludersi con Niezwykła podróż Baltazara Kobera (t.l.: L'insolito viaggio di Baltazar Kober, 1988), dal romanzo di Fréderic Tristan, coproduzione franco-polacca la cui levigata piacevolezza non regge il confronto con quelli che lo hanno preceduto.
Manoscritto, che per inciso si avvale dello score di un musicista del calibro di Penderecki, sposa in maniera impeccabile la levità illuministica, la torsione picaresca, la struttura a scatole cinesi e la coazione a ripetere del magnifico romanzo-rompicapo di Jan Potocki, aristocratico anche nelle modalità scelte per darsi la morte, mettendo in evidenza le sue dicotomie straordinariamente moderne: realtà e finzione, sogno e magìa, orrido e grottesco, in un continuo alternarsi e rincorrersi.
La clessidra si cimenta con la scrittura ad altissima densità delle Botteghe color cannella del grande e sfortunato Bruno Schulz, cavaliere <<di quel materiale esplosivo che si chiama Forma>> (Gombrowicz), reinventandone miracolosamente la pregnanza sia a livello figurativo (tutta l'imagerie ebraico-galiziana, Chagall in primis) che di temperatura emozionale, nella pratica di quella che Angelo Signorelli ha definito fenomenologia dell'onirico, che <<tiene in posa i sogni e, come in ogni spettacolo, ne patisce il coinvolgimento>>.