In questo suo terzo lungometraggio da regista, Milko Lazarov ci consegna una sconsolata meditazione sullo stato dei rapporti umani, partendo dal ritratto di un villaggio della profonda campagna bulgara schierato contro una famiglia composta da sole tre persone ma allargando lo sguardo alla situazione ben più ampia collegata al rifiuto di ogni forma di accoglienza di fronte al fenomeno epocale dei rifugiati e dei migranti. Lazarov ci dice che, nonostante siamo entrati da un po' nel XXI secolo, i codici che determinano le relazioni umane, a partire dalle più insignificanti microcollettività per arrivare al quadro generale internazionale, sono ancora quelli delle società arcaiche fondate sul principio istituzionalizzato del capro espiatorio.
Tarika è una ragazzina che vive con il padre Ali e la nonna lontano dal villaggio, a distanza di sicurezza, per così dire; il loro sostentamento proviene da una esigua produzione di formaggio di capra e dal lavoro di Ali nella cava di pietra locale. Tarika è affetta da una malformazione ereditaria che in linea femminile le è stata trasmessa dalla madre (che ne è morta) e prima ancora dalla nonna; malattia che, se non operata rapidamente finirà per deformarle la schiena procurandole le cosiddette “ali di farfalla”.
È proprio questa caratteristica che già da molto tempo li ha emarginati dalla collettività del villaggio, facendo nascere su di loro leggende inquietanti ma anche rendendoli responsabili, agli occhi dei paesani, di tutte le disgrazie che nel corso del tempo hanno colpito il territorio. Anche ora una morìa inarrestabile affligge il bestiame della regione, lasciando però indenne la capra di Tarika e Ali...
Dopo l'inquadratura della ragazzina che ce la presenta come in un prologo senza parole, il film inizia con l'immagine fredda di una radiografia commentata dalla voce del medico che spiega ad Ali le condizioni di sua figlia e la necessità di intervenire chirurgicamente, così come a suo tempo era stato fatto con la nonna. Ma Ali sembra sordo ai consigli del dottore; sottomesso al fato che incombe su di loro, riporta a casa Tarika per continuare a vivere come fino ad ora. In questo suo comportamento, anche il padre si consegna alla medesima sottomissione al magico che caratterizza gli abitanti del villaggio. Tornando a casa, padre e figlia vedono soldati che portano via animali morti, e pochi giorni dopo Tarika assiste alla costruzione, sempre da parte dei soldati, di una struttura in filo spinato anti-migranti. Il cielo è attraversato regolarmente da un elicottero militare che sorveglia la regione.
L'ostilità del villaggio, a partire dal sindaco, si addensa sempre di più su Tarika, cha da parte sua sembra non darsene preoccupazione. Incurante di ogni rischio si fa anche portare dal padre alla sagra del paese, dove sale sulla giostra, si intrufola tra i paesani per assistere agli spettacoli, ha un prolungato scambio di sguardi con un coetaneo visibilmente attratto da lei. Vive le sue giornate portando al pascolo la capra e svolgendo i lavori di casa, profondamente immersa nella natura in cui si muove: la terra dei pascoli e delle colline circostanti, l'acqua del torrente nelle cui pozze fa il bucato o va a bagnarsi, l'aria del cielo sconfinato che più di ogni altro elemento la attira e in cui i suoi occhi volentieri si perdono. Gli uccelli che attraversano il cielo, a differenza del minaccioso elicottero comunicano una sensazione (difficile dire se si tratti anche di un desiderio) di libertà da cui non possono che rimanere esclusi tutti coloro che posano i loro piedi sulla terra e, senza vere ali, hanno finito anche per perdere la speranza.
Figura chiaramente cristologica – così come in Gesù si afferma il compimento del sacrificio espiatorio, Tarika sa in cuor suo che dovrà farsi carico del Male da cui sono abitati i paesani così come il mondo in cui viviamo, in una liturgia (sembra constatare Lazarov) destinata a ripetersi indefinitamente.