Il fiume Yangtze scorre gigantesco e calmo. Lungo il suo corso la Cina ammassa la sua spettacolare, orribile bellezza: grattacieli, impianti industriali, dighe mastodontiche, porti, luoghi abbandonati, sprazzi di natura selvaggia e indomabile. Una nave cargo solca acque salmastre e grigie, vorticose sotto una superficie apparentemente tranquilla. Il capitano dell’imbarcazione, un uomo che ha perso il padre e propizia un antico rito della pesca per facilitarne il trapasso, trova nella stiva un libro di poesie. Del padre, forse, o di un marinaio poeta dimenticato.
Come in Cartas da guerra di Ivo M. Ferreira, anche in questo film i versi recitati in voce over danno sostanza al racconto, accompagnano in un viaggio impossibile che dal mare conduce alla fonte dello Yangtze, attraversando per intero la spina dorsale della Cina. Lungo il cammino del protagonista c’è una donna, un amore consumato, abbandonato, perduto e infine ritrovato come fantasma, come legame indissolubile. E fantasmatici sono i luoghi del film: una cappella buddista, un’isola abbandonata, una imbarcazione che raddoppia la nave cargo, le stesse acque dello Yangtze, che inghiottono, restituiscono, bloccano e liberano.
Crosscurrent ha il passo lento e ipnotico di un film di Angelopoulos; la grana meravigliosamente sfocata e nebbiosa della pellicola (si, è girato in pellicola – e la cosa già di per sé evoca memorie malinconiche e affettive); nei momenti più fisici e toccanti, come in alcuni meravigliosi primi piani fuori asse rispetto ai campi lunghi dominanti, possiede la luce calda dei primi film di Hou Hsiao Hsien, una sensibilità rara per gli sguardi e le scene d’amore. La parola scritta è onnipresente, invade lo schermo con versi dal senso spesso incomprensibile; come scrive il poeta-narratore, la parola è la sola cosa che sorregga quel mondo, il suo mondo, ma al tempo stesso ciò che genera dolore e crea distanza.
Nella ripetizione, nella totale libertà narrativa, nell’andamento pigro, Crosscurrent prosegue come un poema, inafferrabile e limpido. Non chiede che tutto venga compreso o decifrato; chiede che ci si lasci andare al movimento oscillatorio dell’acqua, al flusso (a rischio, va detto, di estetizzazione) di voci, suoni, immagini e misteri. Alla base c’è molto probabilmente quello che i buddisti chiamano «processo circolare», vale a dire gli atti percettivi che avvengono in stato abituale di coscienza, al di fuori della meditazione o dell’emancipazione spirituale. E Crosscurrent non è necessariamente un film spirituale, ma forse, al contrario, un film profondamente umano e fisico, con la pellicola che accomuna nella grana opaca le figure umane e la natura, l’acqua e la roccia, i vivi e i morti, gli incarnati e gli intrappolati.
Nel film non c’è distinzione fra poesia e preghiera, fra amore e lontananza. La parola crea connessioni, l’uomo le spezza. E la catena che si crea ricorda da vicino la serie di elementi elencati dal canone buddista, secondo il quale dal nome e dalla forma delle cose discende il contatto, dal contatto la sensazione, e poi, collegate l’una all’altra, la bramosia, l’attaccamento, l’esistenza, la nascita, la morte, il dispiacere, il lamento, il dolore, la melanconia, la miseria e così via...