Spoor è la storia di Duszejko, una donna fra i sessanta e i settant’anni, ingegnere civile in pensione, ritiratasi a vivere in mezzo ai boschi della valle del Kłodzko, una zona di natura incontaminata della Slesia polacca a pochi chilometri dal confine con la Repubblica Ceca. Regione di grande varietà faunistica, scorribanda però di cacciatori e bracconieri. E quando alcuni di questi – compreso un poliziotto – cominciano a essere assassinati in maniera misteriosa, Duszejko, che ama gli animali, è vegetariana, odia i cacciatori e cerca con ogni mezzo di difendere la biodiversità di quei luoghi, tenta di convincere le autorità che gli autori degli omicidi siano proprio gli animali della foresta, finalmente convintisi a farsi giustizia da soli.
Fra detection, commedia e film di denuncia, Spoor è un’opera profondamente pasticciata, confusa, a tratti indisponente. Agnieszka Holland, che ci tiene sin da subito a farci capire quanto lei assomigli al suo film, mischia – o confonde – il proprio cinema con le proprie fissazioni e infarcisce Spoor di un po’ tutto quello che le passa per la testa. Per farci capire il suo mondo, le sue idee su vita, morte e spiritualità e propinarci una lezione in merito a questi temi della quale la maggior parte di noi farebbe comunque volentieri a meno.
È proprio nel tratteggiare il carattere della protagonista, che si lascia prendere la mano. Animalista fricchettona su di età, che crede nell’oroscopo e pratica uno spiritualismo animista del tutto personale, Duszejko è eccessiva nell’agire e dispotica nel relazionarsi agli altri. Auto eleggendosi paladina dei deboli (gli animali) e degli emarginati (i due giovani che vivono un amore contrastato), lascia inoltre il sospetto che negli altri non veda che il prolungamento del proprio narcisismo. Esattamente come Holland, che con ben poco interesse per gli spettatori fa del film un uso fortemente egocentrico.
Del resto è una carenza evidente di scrittura a fare di Spoor il pastrocchio disordinato che è. Oltre a personaggi bidimesionali e privi di spessore che esistono solo in funzione della protagonista, mancano anche un impianto narrativo che riesca a gestire i diversi generi che la regista chiama in causa e, conseguenza di questo, un registro che aiuti a capirci qualcosa. Sapendo (forse) molto bene cosa dire – gli intenti di sensibilizzazione in tema ecologico vengono evidentemente prima di tutto il resto – ma non avendo la benché minima idea di come farlo, la Holland mette insieme le mele con le pere tentando di far entrare la forma del dramma nello stampo della commedia e il noir in quello del fantastico. E facendo sì che il banale, l’ovvio e l’imbarazzante finiscano per prendere il sopravvento.
Insomma a ben guardare una differenza, sostanziale, fra Duszejko e Agnieszka c’è. Ed è che la prima sceglie, dopotutto, il buon retiro della pensione, la seconda, purtroppo, ancora no.