Marina è Una mujer fantastica, un essere fluttuante tra le rette che si incrociano nel mondo neoplasticista costruito da Sebastián Lelio. Tutto è dritto come in una composizione funzionalista, righe orizzontali e verticali che si intersecano creando spazi certi; le strade, i profili dei palazzi, i mobili, le decorazioni sulle pareti, il sovrapporsi dei piani all’interno dell’inquadratura, una rete di sicurezza – o forse una gabbia – in cui il dubbio pare non trovare posto. Però c’è Marina, che in quegli spazi si muove con sicurezza, a scompigliarne gli equilibri, suo malgrado.
Orlando e Marina si amano di uno di quegli amori cui non si può resistere. Quando Orlando, la sera del compleanno di lei viene colto da un malore improvviso che lo lascia senza vita, Marina realizza però in pochi istanti che la sua lotta ri-comincia. Orlando, che ha 57 anni e una florida attività nel tessile, ha infatti lasciato la famiglia quando si è innamorato di lei, una transessuale di almeno vent’anni più giovane, e ora Marina deve lottare per il suo diritto a vivere legittimamente il lutto della persona amata.
Comincia così a camminare a passo deciso lungo le linee che definiscono ortogonalmente gli spazi, sempre lo sguardo fisso davanti a sé, pronta in ogni momento a scartare, piegarsi, assecondare le aggressioni, le violenze, la comprensione, la compassione, quasi sempre senza parlare, ogni tanto sferrando qualche pugno a un pallone. Come se si allenasse a convogliare la forza della sua reazione sfogandone in quel mondo l’esplosività fisica e interiorizzandone l’energia. Comunque mai a cedere. Qualunque cosa le succeda, Marina la resiliente afferma il suo diritto a essere, in quell’universo cartesiano, un elemento che fluttua. Come nella bellissima scena della sauna quando, semplicemente alzando e abbassando l’altezza alla quale l’asciugamano copre il suo corpo, passa da una parte all’altra degli spogliatoi, con discrezione, con pudore, senza che nessuno la noti eppure a disagio da una parte e dall’altra per la minaccia che incombe costantemente su di lei, la negazione del suo diritto a essere chi è, senza bisogno di essere identificata con un categoria predefinita.
Sono sempre gli altri d’altronde che hanno necessità di riconoscerla, sono gli altri a essere mandati in crisi dal suo essere fluttuante, sono gli altri a cercare di scriverne la storia, a cercare di definirla appunto. Marina infatti di per sé è sostanzialmente un personaggio senza bisogno di narrazione, un personaggio che si dichiara tutto nel suo essere. Non per nulla prima il figlio di Orlando e poi la moglie, pur nella diversità di modi, denunciano il loro sgomento: quando ti ho davanti non so chi vedo, le dicono. Chi hanno davanti? Non la persona di cui il padre e l’ex marito si è innamorato, non qualcuno da odiare perché ha scardinato l'ordine familiare costituito, ma un essere che non riconoscono e che per il suo sfuggire all’incasellamento, li terrorizza.
Marina si conosce e si riconosce, invece. In un passato di cui non si sa nulla e in un futuro cancellato in pochi istanti; ed è proprio ciò che le consente di avanzare e tirare diritto perché lei sa chi è e che cosa vuole: il suo cane, quello che il suo amore le aveva regalato e che è suo di diritto, poi volterà pagina (come sa di aver imparato a fare). Proprio in virtù di questa trasparente consapevolezza, Marina non avrebbe davvero bisogno di vedere la sua immagine nei ricorrenti specchi o di seguire le apparizioni fantasmatiche del suo amato o ancora di discoteche e balletti pieni di lustrini che rischiano di spostare (in maniera un po’ forzata ma fortunatamente limitata) un film riuscito verso una specie di bignami queer. Non c’è davvero bisogno di note a margine né di semplicistiche metafore psicanalitiche, e neppure di rimandi a un immaginario codificato (e talvolta abusato) proprio perché l’intuizione vera del film è nel suo personaggio.
Una mujer fantastica è Marina con la sua identità personale, il suo essere intimamente e consapevolmente polifonica, il suo essere capace, con molta più forza e credibilità, di salire su un palco e intonare un’aria per contraltisti dal Serse di Händle che non di perdersi un po’ inutilmente nella luce intermittente di una strobo anonima.