Non riusciremo mai a non interpretare come un ossimoro la dicitura «Wettbewerb-außer Konkurrenz», letteralmente «concorso, fuori competizione» che accompagna ogni anno un certo numero di film presentati nella vetrina principale della Berlinale. Quest’anno, tocca, tra gli altri, ad Ága, del bulgaro Milko Lazarov, opera seconda molto lontana, almeno geograficamente, da Otchuzhdenie (Alienation), che gli valse, tra l’altro, il premio come miglior regista esordiente nella veneziana Orizzonti; un opera seconda che non avrebbe sfigurato nella composizione di un concorso che è discontinuo più che in altre annate berlinesi; un’opera penalizzata, verosimilmente, da quella patina “inattuale” che forse ne è proprio la forza.
Ci sono due cuori semplici, al centro di Ága, e sono soli, col cane e qualche altro animale, reale o immaginato, almeno fino alla metà del film: spesso dei punti scuri in campo lunghissimo, in una vertigine di ghiaccio e neve della Jacuzia. Nanook e la moglie Sedna sono ormai piuttosto anziani, ma continuano ad affrontare le sfide del clima e dell’ambiente con i gesti calibrati della tradizione; per il resto, passano il tempo in assoluta semplicità, e Lazarov lo mostra assai bene, portando la macchina da presa dentro la loro yurta con un grande rispetto. Ága, a cui si deve il titolo, è la grande assente dalla loro vita, da quella yurta, una figlia che ha abbandonato il nucleo famigliare, tradendone la continuità. Ovviamente, fin dal nome del protagonista, il mito fondativo, almeno per gli aspetti più documentari del film, è quello di Flaherty e del suo Nanuk l’Esquimese (1922); anche in questo caso, come in quello, per molti versi si può pensare a un tipo di etnografia di salvataggio: perché, partiti i figli, le renne che Nanook allevava oramai sono tutte stratificate nella copertura della capanna, gli animali da cacciare sono sempre di meno, un male misterioso ne colpisce molti, e forse ha colpito la stessa Sedna.
Tuttavia non è un’etnologia della mera conservazione, quella di Lazarov: non solo perché, pur documentando in maniera accurata i rituali quotidiani e i gesti dei due coniugi, i loro racconti e i loro sogni, li affida a una composizione delle inquadrature studiata e spesso “monumentale”, ma anche perché, proprio in virtù di questa grande attenzione formale, a metà del film traccia una linea di demarcazione quasi impercettibile, con l’introduzione di una radio a transistor lasciata dal figlio, che porta la musica “colta” all’interno della tenda; una musica che si insinua a fare da tappeto ai racconti e ai ricordi che i due scambiano, e l’adagietto della 5ª Sinfonia di Mahler si sostituisce, specularmente, al canto che Sedna intonava per marito: lui stesso riconosce un grande dolore dietro a quella partitura, simile a quello che lui prova, ma non manifesta palesemente, per il vuoto lasciato dalla figlia. In fondo, nella sua interpretazione dei segni che arrivano dal cielo, anche questa musica, arrivando dall’etere, è monito trascendentale: è a questo punto che Lazarov la traduce da diegetica a extra-diegetica, lasciandole invadere l’inquadratura, in una maniera omologa e simmetrica rispetto al suono dell’arpa a bocca con cui il film si era aperto; un po’ come se volesse sottolineare il passaggio dalla forma del mito arcaico a un tipo di narrazione più esplicitamente psicologica. Se il sogno premonitore che Sedna racconta, ha il ritmo e l’immaginario di un racconto delle origini, contenendo l’idea di un annullamento del sé nel ritorno all’unità primigenia, in un buco nella terra in fondo al quale sono precipitate tutte le stelle del firmamento, la miniera di diamanti in cui Nanook va a cercare la figlia è in qualche modo la trasposizione di quella voragine nel mondo reale: nella sua struttura a cono di proporzioni colossali, solcata da camion che spostano terra in un moto perpetuo, è quanto di più vicino all’immagine che ci si fa da sempre dell’inferno dantesco. D’altronde, Ága, la “traditrice”, è proprio lì, nel punto più basso. Ma l’uso psicologico del montaggio, il ritrovamento del primo piano in mezzo a tanta angosciante immensità, ci lasciano intendere che quella figlia non è dannata, dopo tutto, ma perdonata.