Si sa che il corpo prende sempre parola in modo inaspettato. Lo sapevano bene le isteriche di fine Ottocento, quelle che venivano visitate da Freud e Breuer e che spesso non riuscendo a esprimere in forma verbale quello che volevano dire (o per meglio dire, non avendo di fronte a sé una scienza medica che era in grado di ascoltarle) decidevano di prendere parola tramite i sintomi del proprio corpo. Questo per dire che spesso tra la parola e il corpo, tra la sfera verbale e quella sessuale non c’è sempre una consonanza d’intenti ma più spesso una divergenza di pratiche e di linguaggi. Prendere parola sulla propria sessualità, parlare del proprio desiderio, è un’operazione assai difficile su cui l’apporto dell’immagine rischia di complicare le cose più che di renderle più immediatamente accessibili.
Touch Me Not, il film di Adina Pintilie presentato in concorso alla Berlinale, prova a mettere a tema in una forma affatto originale la questione dell’intimità e della sessualità, partendo da sé, cioè dal desiderio soggettivo della regista e dell’immediato cerchio di persone che sono state coinvolte in questo progetto, che sarebbe davvero difficile da definire: un po’ performance artistica, un po’ progetto di ricerca, un po’ documentario, un po’ fiction.
L’idea di implicare se stessi soggettivamente, secondo la lezione del femminismo, e di mettere al centro diverse forme di sessualità spesso lasciate ai margini del visibile rende questo film potenzialmente di enorme interesse. E tuttavia la forma scelta – quella del diario filmato, e dello storytelling in prima persona – mostrano quasi da subito tutti i propri limiti. Perché gli ostacoli che impediscono all’intimità di raggiungere una forma soddisfacente – che è poi l’esperienza di frustrazione che accompagna la sessualità tout court – vengono immediatamente ribaltati in un discorso senza contrappunto, dove a essere descritta è semplicemente e in modo assai problematico un’espressione narcisistica del proprio sé.
Quando ad esempio Christian – uno dei protagonisti del film, affetto da una grave forma di disabilità – parla del proprio rapporto con la sessualità, la narrazione che emerge è tutta improntata sui termini del riscatto, della positività, dell’empowerment (secondo la parola passepartout che va tanto di moda oggi) senza che nulla di problematico possa mai venire a galla. Il raggiungimento della tanto agognata intimacy, che dovrebbe costituire l’oggetto analitico del film, viene raggiunta senza problemi tramite una semplice condivisione soggettiva della propria esperienza.
In uno spazio reso completamente bianco, dalle pareti, dall’arredo ma anche dai vestiti dei protagonisti, e attraversando diverse espressioni di sessualità spesso molto distanti tra loro – dalla transessualità, alla disabilità, al sadomaso – Touch Me Not vorrebbe fare una riflessione sul difficile accesso all’intimità e al safe space nel rapporto sessuale tra gli esseri umani. Tuttavia ciò che molto più spesso accade è che del corpo si parli in continuazione, ma che la distanza tra gli interlocutori venga mantenuta costante lungo tutto l’arco del film.
Il fatto di dover sempre anteporre la parola all’azione, il discorso al corpo, il commento all’atto finisce per creare un’atmosfera ancora più inibita, che spesso va a cozzare con una retorica della disinibizione, della liberazione e del superamento dei tabù più declamata che autenticamente raggiunta. Uno dei sintomi più eclatanti di questo ritorno della normatività sessuale nella forma del suo contrario è il riapparire in modo pervasivo – anche all’interno delle espressioni apparentemente più “liquide” e “liberate” di sessualità – del freudismo più deteriore: non tanto quello della psicoanalisi vera e propria quanto di quella sorta di vulgata da senso comune dell’inconscio che dice ogni nostra forma di inibizione nel rapporto con la sessualità derivi dalla relazione parentale e dal contributo della madre alla nostra corporeità. Pure in Touch Me Not, nonostante l’apparente audacia nel mettere sullo schermo le forme meno ortodosse e normativizzate di sessualità, si finisce per riproporre il classico tropo del sogno della madre castratrice: segno che la psicoanalisi è destinata a ritornare in modo surrettizio anche in quei luoghi che paiono apparentemente esserne più lontani.
In generale, Touch Me Not è soprattutto un’occasione mancata per provare a costruire un sempre più necessario nuovo alfabeto della sessualità e dell’intimità, che riesca a essere davvero coraggioso nella messa a tema delle zone d’ombra dell’esperienza del sesso. Parlare del desiderio, anche attraverso la forma dell’immagine, è senz’altro una delle scommesse più complesse e più stimolanti che abbiamo di fronte oggi, e tuttavia crediamo che per farlo sia necessaria una consapevolezza soggettiva e una forma rappresentativa ben più complessa di quella di una narrazione soggettiva incentrata sull’autorappresentazione del proprio Io. Se il desiderio dopotutto è un enigma, lo è anche e soprattutto per colui o colei che decide di metterlo in scena.
Se si volesse essere davvero efficaci su questa questione, si dovrebbe essere quanto meno un po’ più disposti a mettere sotto accusa anche il proprio punto di vista soggettivo e non soltanto la propria capacità di aggirare i tabù e le inibizioni che sarebbero stati messi lì da altri. Ma per farlo, quanto meno in questa forma, ci sarebbe stato bisogno di un po’ più di cinema, ma di questo in Touch Me Not se ne vede – ahinoi – assai poco.