Un romanzo scritto immediatamente dopo i fatti che racconta; una scrittrice tedesca rifugiata in Francia che mette molto della sua vita nelle pagine che scrive; un regista che prende quel romanzo, lo ambienta ai giorni nostri e lo usa con intelligenza per tornare sui temi ricorrenti del suo cinema. Questo è Transit, primo dei tre film tedeschi in concorso alla Berlinale, nel quale Christian Petzold, partendo dall’omonimo romanzo di Anna Seghers, torna a parlare della possibilità di scrivere e riscrivere la realtà, di finzione, di sostituzione, di accidenti, di incidenti, di sopravvivenza, di morte.
Georg è un rifugiato tedesco che da Parigi è costretto a scappare a Marsiglia anticipando la progressiva occupazione tedesca della Francia, nella speranza di imbarcarsi fortunosamente alla volta dell'America. In città ci sono fuggiaschi tedeschi dappertutto, continuamente braccati dalle forze dell’ordine che setacciano vie ed alberghi. La Marsiglia che mette in scena Petzold non è però quella degli anni Quaranta ma la città di oggi, come a dire, in immagini, quello che Christa Wolf scrisse in un’introduzione al libro: «Transito è uno di quei libri che s’innestano dentro la mia vita e che la mia vita non finisce mai di scrivere».
Transit diventa allora nelle mani di Petzold una sorta di edificio narrativo a più piani, in cui imboccare un corridoio (un po’ come in un labirinto) costringe a entrare in una stanza piuttosto che in un’altra senza sapere quale sarà il modo di uscirne, in cui muoversi e procedere vuol dire anche essere costretti a scrivere e riscrivere continuamente la vita dei personaggi, a seconda della situazione che si incontra. Il costrutto diventa allora un gioco in cui logica e creatività si mescolano, un meccanismo in cui la seconda è l’unico modo per sopravvivere alle conseguenze della prima. Questa progressione imprevedibile è guidata da una voce narrante che dettaglia, contestualizza, transita lo spettatore da una pagina all’altra, da un capitolo a quello successivo, da una versione immaginata della realtà alla sua alternativa che si attua. Georg è solo un uomo che lotta per la propria sopravvivenza, ma nel momento in cui ruba in modo fortuito l’identità di uno scrittore suicida in un albergo di Parigi, senza rendersene conto diventa in prima persona costruttore del destino di coloro che incontra e finisce per per riscriverne infaustamente la storia personale. Lo scrittore continua infatti a manipolare la sua materia di fronte agli accadimenti che gli si parano davanti e riscrive i personaggi, i loro pensieri, le loro azioni sottraendoli a una realtà e spingendoli verso un altra.
Questa affascinante costruzione narrativa (che viene spontaneo mettere impietosamente in relazione con Eva di Benoît Jacquot, visto sempre qui in concorso), è per Petzold anche il modo di continuare a riflettere sul cinema come mezzo per ridiscutere la realtà e le sue possibilità. Lo dichiara esplicitamente la volontà di scegliere questo romanzo – una storia di esseri umani in fuga dall’orrore, di confini riscritti, di territori occupati, di viaggi disperati – ricollocandolo temporalmente in un presente che va sopra e al di là del tempo storico per divenire una sorta di tempo narrativo eterno e sospeso in cui i segni dei tempi si mescolano senza interferire. Anche se purtroppo il richiamo alla contemporaneità non riesce a restare sempre in filigrana, Petzold conferma la coerenza di un approccio che crede nelle possibilità di "certo" cinema - e di "certi" libri - di “non finire mai di riscrivere la nostra vita” o, almeno di mostrarci le infinite possibilità che essa si porta dentro, malgrado o in funzione degli accadimenti.