Provando a cercare la parola «purgatorio» sul dizionario Treccani, la prima definizione che compare è «stato intermedio e transitorio di espiazione, rappresentato come il luogo in cui le anime dei giusti, morti nello stato di grazia imperfetta, si purificano dalle colpe veniali come dalle mortali già rimesse, in attesa di venire ammesse in paradiso alla visione di Dio». Togliendo il riferimento a Dio e al paradiso, in questo caso fuorvianti, si avrebbe una perfetta sinossi breve per l’ultimo film di Abel Ferrara.
Idealmente Siberia inizia laddove Tommaso – il lavoro precedente del regista presentato all’ultimo Festival di Cannes – si chiudeva: con un Willem Dafoe crocifisso che lanciava un disperato grido d’aiuto. Abbandonate le inquietudini del quotidiano, l’ambientazione urbana e l'oppressione di famiglia non cercata, Ferrara isola il suo alter ego in un rifugio di montagna, intento a fuggire dalle proprie ossessioni.
Nonostante l'allontanamento da ogni fonte possibile di frustrazione, il protagonista di Siberia sembra non potersi smarcare in alcun modo dagli incubi che lo perseguitano. Nel viaggio che compie attraversando luoghi ai confini dell'umanità, continua a imbattersi in fantasmi, visioni e orrori apparentemente sepolti. Dagli abissi della terra emergono gli orrori compiuti dall'umanità, anche in luoghi apparentemente incontaminati: Ferrara ambienta il proprio film in una sequenza di scenari in cui la natura stessa è mostrata come strabordante di corpi in putrefazione e inquietudini mostruose.
Dafoe esplora i propri incubi lasciandosi trascinare dalla paura, esattamente come Ferrara sembra essere mosso più dalle ossessioni personali che da un disegno scritto a tavolino. Nel suo presentarsi come un cinema più di pancia che di testa, fuori da ogni schema narrativo classico, Siberia offre allo spettatore una visione più libera rispetto a quanto succedeva in Tommaso, dove i riferimenti alla quotidianità del regista limitavano il discorso a una confessione personale. Qui ritroviamo la stessa spinta viscerale nel voler espiare i peccati attraverso la messa in scena, ma un'apertura che sfocia nella creazione di un luogo cinematografico più ibrido e interpretabile.
Ferrara offre allo spettatore un’esperienza cinematografica vicina a quella videoludica, in cui ogni ambiente, paesaggio o situazione modellarsi in maniera estemporanea e fluida in base alle scelte dello sguardo del protagonista. Un mondo in divenire che non dà mai l'impressione di essere fissato da un montaggio definitivo e che per i suoi continui cambi repentini e passaggi spiazzanti sembra rinnovarsi continuamente.
Proprio per questo quella di Siberia diventa una visione sfuggente e indecifrabile e al tempo stesso coinvolgente e affascinante. Lo stesso Ferrara sembra muoversi in un limbo simile al purgatorio, tra il cinema narrativo e sperimentale, tra l'universalità di una visione del mondo disperata e il monologo interiore, alla costante ricerca di una pace apparentemente irraggiungibile.