I morti che perseguitano le protagoniste del film di Marco Dutra e Caetano Gotardo, ambientato in Brasile fra il 1899 e il 1900, a dieci anni dalla dichiarazione della Repubblica, sono gli schiavi che l’Impero liberò per ultimo nel 1888, dopo aver importato dalle coste africane circa 4 milioni di persone. Uomini e donne vissuti senza mai poter scegliere e diventati i fantasmi del rimosso di una nazione dalle radici bianche e dalle braccia nere.
Todos os mortos si apre con la morte di una ex schiava diventata donna di servizio di una famiglia di latifondisti portoghesi trasferitasi a São Paulo dopo il fallimento della piantagione di caffè: tra la schiavitù e la libertà, la differenza non salta agli occhi, è solo un trattamento più rispettoso. La donna lascia un vuoto che sta per ogni altra morte, in libertà o in catene, di tutti gli schiavi passati, presenti e futuri del Brasile; solo Ana, la figlia minore della famiglia decaduta, psicologicamente fragile e sessualmente frustrata, vede a occhi aperti le presenze che la circondano, rimpiangendo l’infanzia nel latifondo ed evocando il ritorno di un mondo finito.
Attorno alla giovane donna, che vive da reclusa e passa le giornate a suonare il pianoforte, la madre Isabel e la sorella Maria, suora istitutrice mossa dalla fede in Dio e nella Repubblica, stendono una rete protettiva che serve soprattutto a proteggere il loro privilegio, la superiorità sancita da secoli di dominio. Agli occhi delle donne bianche ed europee, gli ex schiavi, nelle figure della nuova cameriera Iná e del figlio bambino, restano presenze necessarie ma da educare o sfruttare.
In Todos os mortos l’eredità imperiale del Brasile e il presente repubblicano, nel passaggio decisivo tra il XIX e il XX secolo, convivono, si sovrappongono, si scontrano. Al film manca la deriva di genere di As boas maneiras, film diretto dal solo Marco Dutra con Juliana Rojas, e la possibilità di una rottura stilistica clamorosa. Il perturbante emerge poco alla volta, come un rimosso che torna ad affacciarsi o una premonizione. Nella follia di Ana, che vede ciò che gli altri non vedono, c’è l’inconsapevole espressione di una colpa universale e sempre pronta a ripetersi; nella ricostruzione storica del Brasile d’inizio XX secolo, ancora, compaiono inaspettatamente piccoli particolari incongruenti – graffiti sui muri, rumori di macchine fuoricampo, il rombo di un aereo – aprendo la messinscena estremamente curata all’errore e a una possibile rivoluzione poi soffocata.
Todos os mortos è un film storico nella maniera in cui replica l’andamento dei fenomeni storici, che sono invisibili, pervasivi, definitivi. Il metodo dei due registi è fin troppo esplicito, più letterale e meno dirompente rispetto a quello di film simili come Sanctorum di Joshua Gil e Zombi Child di Bertand Bonello (di cui nel finale viene anche ripreso L’Apollonide), che recentemente hanno affrontato il tema dell’eredità coloniale delle democrazie moderne. In quei film l’oppresso e lo schiavo tornavano per reclamare compensazione, mentre in Todos os mortos la dialettica resta sospesa: passato e presente, padrone e schiavo, bianco e nero si muovono allo stesso livello, come se il cinema cercasse di portare in scena le forze contraddittorie del divenire.