Usare il passato per farci capire il futuro: può sembrare banale, forse, ma Everything Will Be Ok – film del regista cambogiano Rithy Panh presentato in concorso al Festival di Berlino – lo fa attraverso una chiave tutt’altro che convenzionale.
Ciò che interessa a Panh, infatti, non è semplicemente il tema del ricorso storico e di come continuiamo a ripetere (volutamente?) gli stessi errori, ma quanto le immagini abbiano contribuito a tutto questo, alla manipolazione a cui possono dare origine e non solo. La voce narrante, che accompagna tutta la visione, ci dice fin da subito che rappresenta le parole dei nostri archivi, quelli della memoria e quelli dei materiali di repertorio. E bastano poche immagini di Everything Will Be Ok per ridestare immediatamente dei ricordi, che passano (e partono) anche dalla storia del cinema: mentre i monumenti della Terra si stanno lentamente insabbiando, un monolite si innalza dal terreno rimandando a quello kubrickiano di 2001: Odissea nello spazio. Ma questo è solo uno dei tanti riferimenti alla memoria cinefila presenti nel film fin dall’inizio: un film che gioca con la teoria del cinema (Dziga Vertov), che ha riferimenti colti (La jetée di Chris Marker), che esplora le origini delle immagini in movimento (Méliès e non solo), per dare vita a una potente esperienza audiovisiva in cui le vecchie pellicole si mescolano con i video di propaganda, con le violenze, con gli orrori ambientali e con uno scenario distopico in cui gli animali hanno preso il sopravvento sugli esseri umani.
In questa sorta di “pianeta delle scimmie” dove al potere ci sono primati, cinghiali e altri animali, l’allegoria principale sta nel fatto che questa fantascientifica rivoluzione ha semplicemente riportato nuove forme di totalitarismo, il tema che il cambogiano Rithy Panh ha sempre denunciato nel corso della sua carriera. Non c’è speranza, ma solo dolore e agghiacciante consapevolezza in questa nuova, importante tappa della filmografia del regista de L’immagine mancante. Ed è proprio con quel bellissimo lungometraggio del 2013 che Everything Will Be Ok ha molto a che fare, a partire dalla scelta del diorama e dei pupazzi utilizzati per rappresentare i personaggi, umani o animali che siano. Se L’immagine mancante era uno sguardo sul passato, quest’ultimo film è invece un monito nei confronti del futuro, ma in entrambi i casi è il cinema a esserne il grande protagonista: mescolando film di finzione, documentario, materiali di repertorio e nuove immagini create ad hoc che pongono al centro della scena impassibili marionette, un solo schermo a Panh non basta più e deve ricorrere a continui giochi di split screen per inglobare all’interno del quadro visivo tutto ciò che vuole raccontare.
Ancora una volta il regista si rifà alla penna dello scrittore Christophe Bataille, che accompagna costantemente la storia tramite una voce narrante onnipresente, empaticamente coinvolgente nei toni, ma glaciale per i contenuti che racconto. Non è un caso che il titolo del film prenda spunto dallo slogan presente sulla maglietta di un’adolescente uccisa in una manifestazione di protesta in Myanmar. Un punto di partenza terribile per un film che vuole lanciare un messaggio semplice e complesso allo stesso tempo, interpretando un distopico futuro tramite il passato, mescolando fantascienza e immagini documentaristiche. Rendere visibile l’invisibile, insomma: proprio uno dei dettami di quel cineocchio di Vertov, più volte citato nel corso del film.