Estella è una ragazza messicana che non sa una parola di inglese e che cerca disperatamente, appena uscita dalla metropolitana di New York, un ristorante chiamato “The Grill”, dove dovrebbe lavorare Pedro, partito tempo prima dal suo stesso villaggio natio. Le strade attorno a Times Square brulicano di gente rumorosa, che si muove rapida e presta poca attenzione a quell’esserino sperduto. Ma il caso vuole che Estella si ritrovi proprio davanti alla porta del locale e la fortuna le offre in un lampo, grazie a un equivoco e a un’emergenza, la possibilità di lavorare – fuori da ogni regola sociosanitaria – nella cucina del ristorante. Appena Estella varca la porta posteriore dell’edificio l’inquadratura si stringe, il formato panoramico si riduce, l’aria comincia a mancare. È un dedalo il retro del “The Grill”, fatto di corridoi e ufficetti che infine conducono allo spazio aperto e allo stesso tempo concentrazionario della cucina. Estella trova Pedro, con cui la mettono subito a lavorare, ma accanto a lui incontra una moltitudine di facce, etnie, nazionalità, variegate come il cibo da cucinare in un ristorante di quel tipo, dove c’è tutto per chiunque. Aragoste e tortellini, pizze e scaloppine: un menu sterminato destinato a soddisfare gli appetiti di una clientela onnivora che si nasconde oltre la porta che separa il locale dalla cucina. Quella porta è attraversata solo dalle cameriere in abiti a righe che svolazzano in maniera sempre più nervosa per prendere le comande, per discutere sulle tempistiche, per ostentare aggressivamente ognuna la propria frustrazione e dall’enigmatico proprietario.
Alonso Ruizpalacios racconta un mondo dentro un mondo, ribadisce un’idea narrativa esplosa, un puzzle imperfetto in cui i pezzi sembrano non incastrarsi, e smantella – come aveva fatto nei precedenti Museo e Una película de policías, anch’essi presentati alla Berlinale – i canoni riconoscibili del racconto di genere. Ma che genere è quello di La cocina? È una drammatica storia corale che assume contorni di commedia grottesca affondando le radici nella satira sociale e condendo il tutto con un sottofondo poliziesco (sono scomparsi 800 dollari da un registratore di cassa e va trovato un colpevole). Insomma, è un film che coscientemente deraglia e spiazza, corre e si ferma, divaga ed implode.
Al centro della storia c’è l’amore tra il cocinero Pedro (Raúl Briones Carmona, in perpetuo movimento) e Julia, la più bella delle cameriere (un’incantevole Rooney Mara). Julia è incinta e vorrebbe abortire, Pedro cerca di convincerla a non farlo, ipotizzando per loro un futuro differente. Attorno a questo nucleo sentimentale si agitano – a volte quasi danzano – uomini e donne alle prese con quotidiane disillusioni e rabbie esplosive. Si parla, si urla, ci si muove all’impazzata in La cocina, salvo poi fermarsi – nelle pause lavorative che diventano momenti di sospensione cinematografica – per confidarsi e confrontarsi, in lingue diverse che moltiplicano il senso di umana frantumazione che si legge in sguardi ugualmente dolenti, in corpi continuamente messi alla prova. Ruizpalacios orchestra questa sinfonia corale lavorando per iperboli, portando al parossismo quasi ogni sequenza, ragionando volutamente per accumulo, ampliando ed evidenziando i contrasti.
C’è tanto, forse troppo, in La cocina: ma il lavoro sull’immagine – immersa in un bianco e nero raggelato nella sua patina iperrealista, destinato a virare in pennellate significative di colori freddi – ben traduce la febbrile inquietudine che pervade il film. Una bomba sempre sul punto di esplodere fino al finale in cui la barriera che separa i due mondi antitetici – la sala e la cucina, destinate a non incontrarsi mai – finalmente salta in maniera anarchica, ribelle, nevrastenica. La cocina parla di uomini e donne, di sogni infranti e di ingiustizie sociali, di amore e impossibilità di amare con un tono acido e vibrante che nasconde un sincero affetto verso un’umanità disastrata ma mai doma. La metafora dell’America “land of the free, home of the brave” è già disintegrata; nelle cucine di un ristorante, in fondo, non resta che raccattare i cocci rimasti per terra.