L'idea di fragilità contenuta nell'aggettivo “effimero” abbinato al sostantivo “canone”, che in ambito musicale indica una struttura ripetitiva potenzialmente interminabile, dà origine a un titolo-ossimoro in cui si rispecchia la condizione di un mondo di reperti indifesi a fronte dell'incalzare del presente (mai veramente mostrato in tutta la sua invadenza, tranne che in rarissimi momenti: smartphone come strumento di archiviazione del passato; l'esplosione dei suoni aggressivi di una musica “aliena” da una invisibile autoradio). Questo documentario di Gianluca e Massimiliano de Serio, avente come oggetto le radici musicali di una cultura sempre più nascosta tra le pieghe della Storia e della comunicazione contemporanee si fa, al contrario, forte proprio della sua conclamata inattualità, mostrata attraverso le immagini di paesaggi, oggetti, volti, ambienti domestici, laboratori, materiali, e le voci che ne restituiscono la sostanza sonora a tratti struggente a tratti aspra, sempre consapevole della propria funzione ormai testimoniale, ben lontana da quella di espressione di un mondo odierno di racconti, sentimenti, relazioni e valori che furono un tempo ben vivi e condivisi.
Diviso in undici capitoli che ci guidano lungo un percorso di riscoperta mai asettica ma anzi nutrita dalle emozioni tanto di chi parla, spiega, canta, quanto di chi si fa carico di registrare e mostrare, Canone effimero appoggia la sua ipersensibilità audiovisiva alla cura di una forma solo apparentemente algida, da osservatore impassibile. Il formato 1:1, la camera fissa su interni ed esterni che si alterna a lente panoramiche su vedute montane o sui volti dei cantori; un piano sequenza in camera-car con lo sguardo rivolto all'indietro su una strada e un paesaggio innevati: siamo di fronte alla messa in forma di un'invocazione tutt'altro che di maniera, capace al contrario di muovere forze profonde proprio nella misura in cui costrette a scontrarsi con quel fuori campo che le circonda invisibile, impegnato a confinarle all'oblio o quantomeno in un ruolo di antagoniste dal destino segnato.
La musica come lavoro. I gesti e i tempi lenti, necessari alla ricerca dei suoni giusti, siano essi prodotti dagli strumenti musicali elaborati e costruiti secondo procedimenti capaci di unire la funzionalità all'estetica, oppure generati dall'impasto polifonico delle voci come risultato di una ricerca e di una pratica dalle radici tanto profonde quanto capaci di dare ancora oggi frutto. Costruire una zampogna o una lira necessita della stessa cura con cui arrivare a modulare una vocalità che non può essere solo frutto di istinto innato. L'arte del liutaio corrisponde all'arte dell'armonica combinazione dei suoni in un coro affiatato. Tramandare gesti, conoscenze e segni grafici nell'intaglio di un “mammo” di zampogna, introducendo però anche il dettaglio che testimonia del passaggio generazionale, rimanda alla pazienza con cui ragazze e ragazzi si applicano a replicare linguaggi e sonorità introducendovi comunque quel quid che sarà la cifra della novità da loro firmata (consapevolmente o no) nel corpus della tradizione.
La musica come lavoro e il lavoro come struttura “musicale” profonda di un mondo che non si tira indietro di fronte ai cambiamenti, anzi li accoglie e si confronta con essi e con la violenza, modulata in ogni sua forma, che necessariamente li accompagna. Non importa quante fatiche o quanti drammi individuali e collettivi ne siano il portato, trasfigurati in lamenti d'amore o in cunti religiosi a volte di cruento realismo: Canone effimero accetta il rischio di mostrarli e di farli ascoltare con il necessario rispetto, per riscattarne la memoria senza con questo blandirci di illusioni sul presente di cui siamo parte.