Questa coproduzione norvegese, tedesca e britannica ricostruisce la vicenda intricata che vede al centro Rob Moore, un ex produttore televisivo che per cinque anni si è spacciato come giornalista, infiltrandosi in questo modo tra gli attivisti che lottano contro la mafia internazionale dell'amianto, dopo essersi guadagnato la loro fiducia. Contemporaneamente lavora anche come spia al soldo del business che dichiara di voler combattere. Una volta che la verità viene a galla e Moore viene smascherato, egli afferma di essere un doppiogiochista e che il suo intento era di raccogliere prove proprio contro quelli per cui lavorava sotto copertura. Facile intuire che per i due giornalisti che accettano di raccontare la sua vicenda in un podcast di cui è egli stesso protagonista sarà tutt'altro che facile svolgere la matassa: narrazioni sovrapposte, versioni discordanti prodotte da punti di vista inconciliabili, per una verità che più il lavoro procede e più si rivela irraggiungibile.
In palio c'è l'ambìto trofeo della verità, come sempre quando ci si aggira nel labirinto avvincente ma infido della narrazione. Tra bugie, ammissioni, confessioni e ricostruzioni non si può mai sapere fino a che punto attendibili; al seguito di un flusso di parole inarrestabile – domande, risposte, dialoghi a volte serrati e spesso elusivi, mai comunque realmente definitivi circa la sostanza ultima del loro argomento; in un gioco di specchi senza fine, più o meno deformanti e infine opachi. La sensazione finale inevitabile è quella di una delusione annunciata, generata dalla materia stessa della realtà, dell'esistenza che è ontologicamente torbida, inadatta dunque a qualsiasi operazione di trasparenza: più ci si addentra nel tentativo di cogliere dettagli decisivi, più se ne presentano altri destinati a complicare ulteriormente il quadro e, di conseguenza, la sua comprensione. Co-protagonista di questa detection ingannevole è naturalmente il sistema dell'informazione che, pur con le sue (almeno in questo caso) buone intenzioni è costretto ad ammettere la sua impotenza a raggiungere quei risultati che si era prefissato in partenza.
Metafora illuminante di questo stallo tanto pratico quanto concettuale è il mestiere che Moore esercita ora, ossia quello di giardiniere, nonché la dottrina buddista che egli dice di seguire. Sistemare i giardini, modellare le piante con cesoie e altri attrezzi taglienti, intervenire su rami secchi, aprire varchi nella vegetazione quando è troppo esuberante, tracciare percorsi per passeggiate nel verde fine a se stesse: dove finisce l'amore per la natura e dove inizia quello per la sua falsificazione, per il suo cammuffamento in un affascinante ma imposto e artificioso gioco di forme? Ugualmente possiamo dire della dottrina cui Moore allude come da lui interiorizzata in alcuni passaggi: accettare il mondo per ciò che mostra di sé, nel bene e nel male, come veleno e come medicina, sperando, nella migliore ma non necessariamente realizzabile delle ipotesi, di trasformare il primo nella seconda ma in realtà per forza di cose muovendosi a tentoni e senza sapere come fare. A chiudere il racconto non può che esserci il silenzio di Moore stesso e di tutti i soggetti economici e politici coinvolti nell'inchiesta.