“Sono un fottuto perdente”. Guardando con un sorriso che cerca complicità nella macchina da presa, Henrik, stimolato dalla moglie che gli rimprovera il pessimo esempio che fornisce ai figli ricorda (anche a noi): “ho visto mia madre recidersi le arterie, sangue dappertutto...l'ho vista schiumare dalla bocca dopo una overdose di pillole...”
Presentato in concorso alla 21ma edizione del Biografilm Festival, The Father, the Sons, and the Holy Spirit, per la regia del danese Christian Sonder Jepsen (suo è anche The Monk, la storia di un affermato scienziato danese che dopo una crisi è diventato monaco buddista, eremita nello Sri Lanka), è un documentario potente che assembla 14 anni di riprese sulla disfunzionale (ed è un eufemismo) famiglia Ernst; meglio: sui due fratelli Henrik e Christian e la loro epica (a suo modo sì) battaglia quotidiana per non crollare definitivamente nella depressione e nell'autolesionismo. Per darsi un futuro insomma.
Henrik prova a rimanere in asse con la famiglia attorno a sé, moglie e figli, anche se non evade dal suo stato di malessere e abulia esistenziale (“solo quando gioco ai videogames mi sento sotto il mio controllo”), con la compagna che lo riprende aspramente per il pessimo esempio che mostra al resto della famiglia. Di uno dei due figli vediamo anche la festa scolastica per la sua maturità, tutto sommato integrato tra i compagni nonostate la mise da metallaro borderline, con il professore che prima di inaugurare pranzo e festeggiamenti riporta le parole di un rapper danese, Jokeren: “Fatti coraggio ragazzo, fissa gli occhi del tuo nemico e rompilo”.
Più traballante invece lo situazione esistenziale di Christian, iperteso e sbandato, coltivatore di marihuana sul balcone, precedenti di alcool, eroina e delinquenza, ma soprattutto progressivamente legatosi a teppisti di estrema destra (ha anche una inquietante pistola), peraltro anche lui con moglie e figli cui appare legato.
La colpa di ciò? Un padre pessimo, borghese agiato che aveva (ed ha) soldi, stabilità economica, hobby raffinati (diploma di volo, amante dei cavalli) e una passione per le avventure sessuali in estremo oriente. Infatti li abbandona per andare a vivere, felicemente, in Germania tagliando i ponti e ignorando i feroci messaggi di Christian e una improvvisata di Henrik sino a casa sua, ovviamente non accolto.
Il motivo? Insieme, i due fratelli dai caratteri così all'opposto lottano per riprendersi la ricca eredità del nonno da cui pensano di essere stati scippati con un documento falsificato. Insomma, denaro, droga, dissipazione, gioventù bruciata come un fiammeggiante mèlo hollywoodiano, con la differenza che questa è una storia dolorosamente vera di cui il montaggio di filmini familiari e le riprese a mano ribadiscono a ogni momento l'autenticità, anche quando si tratta di ricostruzioni concordate (peraltro nessuno di quelli che agiscono davanti alla mdp è un professionista) o quando il cineasta ricorda a tutti di essere un fotografo di vaglia, concertando le azioni tra splendidi paesaggi della campagna e della costa danese. E noi non riusciamo a staccare l'attenzione neppure per un attimo, proprio grazie a un autore che sa cogliere l'autentico anche nella fiction.