Nel quartiere popolare di Danisinni, a Palermo, c’è un vecchio asilo abbandonato. Intorno, sterpaglie. Dentro, calcinacci, polvere, siringhe, una fila di minuscoli bidet (per bambini). I ragazzini del posto lo scrutano da lontano, lo temono, vi scorgono un fantasma, ne sono attirati. Un luogo proibito, quindi, inevitabilmente, da visitare, da espropriare, da colonizzare. Alcuni di loro, Angelo, Mery, Rosy, Giada, i più intraprendenti, i più coraggiosi, vogliono fare di una stanza la loro casa. Ma poi il comune si decide, dopo anni di trascuratezza, a rimetterlo in sesto: e la nuova abitazione di questi minorenni senza patria, senza presente e senza futuro, proprio come Danisinni, è spazzata via.
Quasi un Il signore delle mosche tolta la violenza, che resta sullo sfondo, nei racconti, un dato di fatto. Lo sguardo e il piglio del documentario, più che naturalistico, appare impressionistico, soggettivo, ma di un soggetto che è un’intera generazione, piccola ma già grande a sufficienza da capire di appartenere a una società disastrata, padri in carcere, strada, destini segnati. Niente di nuovo, tutto già visto, tutto già acquisito, compresa la spontaneità dei protagonisti (che, invece di chiamare “interpreti”, potremmo definire “testimoni”), epperò in questa fairy tale leggera e amara c’è un bel sentimento per lo spazio e per i volti. Un’opera di bambini e non per bambini; un’opera dedicata alle vittime non soltanto della realtà, il che sarebbe scontatissimo, ma in particolar modo alle vittime dei capricci del tempo, che interviene quando non te l’aspetti, e rade al suolo ogni seppur flebile speranza.