È quasi sempre notte, nei film di Hong Sangsoo. E se è giorno, la luce è grigia. Se poi per caso la fotografia è bianco e nera, come in The Day After, c'è come una patina leggera che rende l'atmosfera ovattata, le immagini distanti. Uno stato di veglia che avvolge i personaggi e rende indefiniti i tempi e i luoghi (che come al solito sono pochi e molto piccoli: appartamenti, uffici, ristoranti). «Se la realtà è indefinibile», dice a un certo punto una delle tre donne protagoniste del film, «allora vuol dire che non esiste». E quindi ogni evento, incontro o ricordo è immerso in un vuoto che sfugge a qualsiasi presa, alla memoria dei personaggi e alle immagini stesse dei film. Come al solito, nel cinema di Hong Sansoo c'è come una doppia cornice a inquadrare e confondere gli eventi – c'è la percezione dei personaggi e c'è l'insicurezza della ripresa e del racconto.
In The Day After ci sono un signore cinquantenne che conduce una piccola casa editrice, una moglie che sospetta il tradimento, una collaboratrice che è stata amante dell'uomo e una nuova impiegata al suo primo giorno di lavoro. Quattro personaggi che s'incontrano, si avvicinano e allontanano (e ovviamente litigano, mangiano, bevono, urlano, si menano) con la stessa facilità con cui il montaggio accosta situazioni temporali distanti e la messinscena modella la propria continuità sulla fluidità tipica delle connessioni oniriche.
I suoni d'ambiente azzerati, la presenza in scena di due o al massimo tre personaggi, gli spazi metropolitani deserti, la macchina da presa che indugia in zoom o minimi spostamenti laterali immergono la realtà del film in uno spesamento percettivo che è il tratto inconfondibile del cinema di Hong Sangsoo. E che tocca a ogni spettatore accettare o rifiutare. (Claire's Camera, l'altro film del regista coreano presentato quest'anno a Cannes e girato lo scorso anno proprio nei luoghi del festival, presenta le medesime caratteristiche e le medesime situazioni; è semplice, quasi infantile, e ha la limpidezza di un Rohmer un poco distratto, con quattro personaggi che intrecciano i loro percorsi e piccole fotografie polaroid che catturano il reale e poi lo abbandonano nel momento stesso dello scatto...).
A mancare ai film di Hong Sangsoo è proprio la distanza prospettiva rispetto al mondo dei corpi e degli oggetti filmati; lo spazio è surrealista perché riposiziona la realtà filmata in un ordine imprevisto delle cose, in un universo in cui l'azione è guidata da emozioni pure, prive di mediazione, al limite dell'autismo. Rispetto a On the Beach at Night Alone (giusto per fare un esempio vicino nel tempo, dal momento che il regista coreano lavora da anni su coordinate espressive sempre uguali), che come al solito accostava in maniera diretta rappresentazione onirica e presunta rappresentazione realistica riproducendo in maniera astratta l'elaborazione di un lutto sentimentale, The Day After è forse meno brutale e disperato: la veglia confonde ma non annulla i confini della realtà, e la buffa insicurezza sentimentale dei personaggi, opposta al rimpianto senza speranza del film precedente, dà vita un quadrilatero sentimentale simpatico e tutto sommato dimenticabile. Soprattutto il giorno dopo, quando ci si sveglia e si dimentica ciò che si è sognato, forse visto.