C'è un aspetto che fa di The Meyerowitz Stories qualcosa in più di una semplice commedia generazionale con protagonista l'ennesima famiglia di artisti newyorchesi e di Noah Baumbach un semplice emulo di Woody Allen: l'arte stessa, la presenza in scena di oggetti che segnano il tempo e delimitano gli spazi. E come le parole, la storia, l'economia e il cinema, che in Giovani si diventa e Mistress America erano gli strumenti per una riflessione sulle forme di espressione e comunicazione della contemporaneità, le sculture realizzate dal protagonista di The Meyerowitz Stories, lo scorbutico artista ottantenne Harold Meyerowitz, famoso negli anni '60 e mai del tutto consacrato, con a carico tre matrimoni e altrettanti figli - due, Matthew e Jean, dal primo e uno, Denny, dal secondo - portano racchiusi nelle loro forme geometriche tutto ciò che le parole e i ricordi non hanno saputo esprimere o ricostruire nel corso di una vita.
In Baumbach, l'arte - o meglio ancora, il discorso sull'arte e sulla possibilità di ogni linguaggio di raccontare il mondo nella sua complessità - è depositaria del tempo, una presenza muta arricchita di un senso che va oltre il suo stesso valore. Le stesse sculture di Harold, nonostante il pezzo venduto al Whitney o una retrospettiva al Bard College, come prospetta il figlio prediletto Denny, non a caso l'unico in famiglia privo di talento artistico e capace di fare soldi, non è nemmeno così significativa come i suoi figli vorrebbero credere. Pezzi di legno che sono semplicemente pezzi di legno, ma che racchiudono la storia (e le storie) dei Meyerowitz, che dei Meyerowitz hanno colpevolmente fissato i caratteri nel tempo e travisato i ricordi. Come se l'arte fosse l'unica cosa a definire le coordinate di una famiglia, e al tempo stesso un tradimento.
Il legame di Baumbach con Woody Allen è in questo senso, più che un omaggio o una ripresa, un aggiornamento. I genitori intellettuali, egotici, quasi mostruosi di tanto cinema alleniano (il cinema alleniano più malinconico e sfumato, con i meravigliosi colori bruni di Di Palma che Baumbach cerca di recuperare tra New York e il Massachussets), trasmettevano ancora il sapere di generazione in generazione, sacrificavano l'affetto nel nome dell'arte e lasciavano un'eredità. E si pentivano solo nei sogni dei figli, come il padre di Marion in Un'altra donna. In The Meyerowitz Stories, invece, l'arte è soprattutto un ostacolo: non unisce le generazioni ma semplicemente le confonde. E il perdono si sussurra o si disperde nella relazione quotidiana, che non è né drammatica né indifferente; solo normale. Con il tempo, gli oggetti esposti, accumulati e dimenticati dai Meyerowitz (in uno strano accordo con gli umori lontani eppure simili della famiglia protagonista di L'heure de l'été di Assayas) diventano feticci che condizionano le relazioni e trasformano la stessa vita quotidiana - attraverso un paio di occhiali, un bastone, un piatto di biscotti - in una contesa affettiva continua.
Quello di Baumbach è un vero e proprio lessico familiare, anche nelle ripresa di una modalità di messinscena e scrittura riconosciuti, riconoscibili e risaputi. Il suo stesso film è la retrospettiva di un genere, una sorta di catalogo che usa il passato, non come un deposito di traumi e feriti, ma al contrario come lo spazio di un fraintendimento e un tradimento perpetrati. L'arte di Harold Meyerowitz, che nasce da ricordi sbagliati o da momenti dimenticati (e che solo i giovani possono ancora poter pensare di vedere o riconoscere per la prima volta), è l'espressione di uno schema sbagliato eppure ripetuto: un segnale di vita che parla una lingua familiare ma non condivisa, una voce soggettiva che ciascuno assume come propria. È un'arte pienamente contemporanea - come in fondo il cinema dello stesso Baumbach - che nella sua medietà racchiude una molteplicità di prospettive che finiscono per lasciare l'oggetto in sé, il suo senso e la sua collocazione spaziale, in secondo piano, giusto l'appoggio per un bicchiere da cocktail o il terreno di una lite familiare nemmeno così interessante...