Concorso

Sentimental Value di Joachim Trier

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Se Sentimental Value fosse – come in certi momenti sembra essere, quando ad esempio cita Un’altra donna – un film di Woody Allen, e prima ancora naturalmente un film di Bergman, dal momento che si parla di teatro, di cinema, di famiglie di attori, di case che contengono memorie e vita, e per questo pure un film di Assayas, con la lavorazione di un film che spinge i personaggi a confrontarsi con il proprio desiderio attraverso la creazione artistica, sarebbe un film bellissimo.

È invece un film di Joachim Trier, e del cinema del regista norvegese ha tutti i pregi e i difetti, la capacità di cogliere l’impronta del dolore nelle relazioni familiari – con due sorelle adulte, una attrice e l’altra storica, una madre morta da poco e un padre famoso regista che torna in Norvegia dopo tanto tempo per girare un nuovo film di finzione – e la dispersione del dramma non tanto nelle frange del racconto (cosa che proprio Assayas sa fare benissimo) quanto nei momenti di sospensione in cui a emergere sono soluzioni visive da video-arte (succedeva la stessa cosa in Segreti di famiglia) o i dialoghi insistiti finiscono per farsi ripetitivi.

Come in Settembre di Allen, la ricostruzione di una scenografia domestica che riflette in arredi e dettagli la condizione borghese e intellettuale dei personaggi (l’abitazione è un’elegante dimora colonica in un quartiere residenziale di Oslo), in Sentimental Values fa da contrasto al racconto del dolore in essa contenuto. Vecchia di generazioni, la casa al centro del film – non l’unica, dal momento che le due sorelle vivono nei rispettivi appartamenti – è teatro di morte e di vita, delle liti fra i genitori di cui le due sorelle sono testimoni da bambine e delle confidenze dei pazienti alla madre psicologa (ecco la citazione da Un’altra donna). Il fatto che il padre regista (interpretato da uno straordinario Stellan Skarsgård) la voglia trasformare anche in uno spazio di finzione (scrivendo un film sulla madre suicida e chiedendo alla figlia di interpretare la protagonista) permette ai sentimenti di sfogarsi e liberarsi in maniera imprevedibile e irrisolta. Perché arte e vita si sovrappongono, ma quasi mai combaciano.

Nonostante l’evidenza del dramma familiare, in Sentimental Value mancano le classiche scene madri del genere (escluso forse il momento in cui la figlia attrice sputa in faccia al padre dopo la proposta della parte); in compenso, proprio la sceneggiatura del film da girare genera e risolve almeno in parte i conflitti di una vita e la recitazione stessa, a teatro come al cinema (e questo è Bergman), diventa un banco di prova per le illusioni e le convinzioni dei personaggi, costringendo tutti a confrontarsi con la memoria e la morte, con la parola (del teatro), il movimento (del cinema) e i resti del passato (dei documenti su cui lavora la figlia storica, che fa un lavoro diverso dal padre e dalla sorella e avendo rinunciato all’arte dopo aver recitato da bambina è forse l’unico personaggio risolto).

I veri protagonisti del film, però (e giustamente) sono proprio il padre regista e la figlia attrice (che è Renate Reinsve, lanciata dal precedente film di Trier, La persona peggiore del mondo), entrambi così preoccupati di vivere nell’altro da sé (nell’inizio bellissimo la voce narrante racconta di come da bambina la futura attrice abbia scritto un tema immaginando di essere la casa in cui viveva, osservando da soggettive impossibili sé stessa e la sua famiglia) da non accorgersi di vivere e di condizionare, nel bene e nel male, la vita degli altri. In particolare, il famoso regista affascina e influenza l’attrice americana che ha chiamato a Oslo dopo il rifiuto della figlia (una star interpretata da Elle Fanning), mentre l’altrettanto famosa attrice teatrale, vittima della paura da palcoscenico, nemmeno si accorge di essere sempre presente per gli altri, vicina sia alla sorella minore sia al figlio di lei, al quale è molto affezionata (ed è interessante come per una volta, nonostante le crisi esistenziali e i tentati suicidi, un film sul teatro rinunci almeno in parte al cliché dell’artista autocentrata…)

Nell’intreccio autobiografico del film di cui si racconta la lavorazione – che affronta il suicidio della madre del regista e arriva a coinvolgere anche il nipotino, come se l’arte fosse una maledizione da tramandare di generazione in generazione – i nodi che intricano i legami familiari finiscono per sciogliersi solo sulla scena. L’immagine della donna suicida rimane non vista, ponendosi come il fantasma da cui tutto ha origine e che in qualche modo condiziona le donne del film, che finiscono non a caso per somigliare l’una all’altra (Trier lo sottolinea in molti momenti, confondendo le figure in scena). La finzione si sovrappone dunque alla vita, creando un doppio che non completa ciò è desinato a rimanere non detto (o non visto), ma lo complica.

Per questo Sentimental Value è irrisolto, squilibrato, eccessivo, anche se il malessere che rimane sospeso nel finale del film nel film (in cui si rende esplicita l’artificialità della scenografia in modi che solamente Allen suggeriva e che invece Trier, come Joanna Hogg in The Souvenir 2, esplicita) si proietta sull’intero film che si sta vedendo. E viene da pensare che se Trier fosse meno consapevole di ciò che ha tra le mani, e liberasse maggiormente sentimenti e atmosfere (quanto si sente in un film come questo l’assenza di un direttore della fotografia come Sven Nykvist…), il suo film sarebbe forse meno stratificato, ma infinitamente più vivo.