Concorso

Jeunes mères di Jean-Pierre e Luc Dardenne

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Il metodo dei fratelli Dardenne viene da lontano, dai documentari d’inizio carriera, fondati sull’ascolto di vicende personali dentro la crisi del mondo operaio di fine anni ’70 e ’80, e dal lavoro con gli interpreti dei progetti di finzione, in cui il personaggio veniva costruito a partire dalla realtà che lo conteneva, dialogo dopo dialogo, prova dopo prova, e il film diventava uno spazio da vivere: lo spazio di un incontro.

Guardare oggi un loro nuovo film significa osservare la tenuta di un metodo che non cambierà più (che non è mai cambiato, anzi) e che nel recente passato ha mostrato una certa meccanicità narrativa, come nel precedente Tori e Lokita, ma rivelato anche una grazia sempre rinnovata, come nel Giovane Ahmed.

Jeunes mères, che a Cannes ha portato ai registi belgi l’ennesimo premio (per la miglior sceneggiatura), nasce ancora una volta come un lavoro di finzione che porta dentro un luogo preciso (una casa d’accoglienza per ragazze madri adolescenti) attraverso l’esperienza (e prima ancora la presenza) di quattro protagoniste le cui vicende parallele costituiscono l’ossatura del racconto.

Il film non ha un vero e proprio sviluppo narrativo, ma una linearità di eventi che prendono vita nel consueto contesto disagiato della periferia di Liegi, tra povertà endemica, tossicodipendenti che faticano a rinunciare alla droga, madri alcolizzate, ragazzine abbandonate che reclamano attenzione, coppie di giovani genitori alle prese con il carcere e il crimine. Lavorando con le loro giovanissime attrici esordienti (come esordiente era nel 1999 Émilie Dequenne, scomparsa pochi mesi fa e ricordata al termine della proiezione ufficiale a Cannes), supportate in piccoli ruoli da interpreti professionisti (Fabrizio Rongione, India Hair, Joely Mbundu), i Dardenne creano situazioni e incontri fra personaggi e costruiscono il dramma del film nello spazio di inquadrature come sempre strette, dominate da figure in conflitto, agitate, nervose e smaniose di muoversi, senza un fuoricampo a richiamare l’allargamento dello sguardo, ma al contrario con una concentrazione di elementi visivi e sonori che elimina lo spazio circostante e comprende solo ciò che è funzionale al dramma stesso.

Lo sguardo dei due registi, come accade dai tempi di Rosetta, è richiamato dall’angoscia delle persone filmate. Dalla loro richiesta d’attenzione e d’amore, di rispetto e di considerazione (mette i brividi il frammento della ragazzina quindicenne incinta che fa di tutto per farsi ascoltare dalla madre che l’ha abbandonata anni prima), nasce il film stesso, e al suo interno gesti ed espressioni superano l’artificialità della messinscena (come quando una figlia para uno schiaffo improvviso della madre o una neonata ignara di tutto sorride all’attrice che è sua madre solo nella finzione) e diventano momenti di rivelazione pura.

Il metodo dei Dardenne trasforma le riprese in una sorta di happening, la restituzione sullo schermo di una scrittura precisissima (per questo il premio alla sceneggiatura è giustissimo) e di un ancora più straordinario lavoro con le interpreti, attraverso il quale la ripetizione porta all’essenzialità. Solo così la superficie della realtà raccontata può arrivare a squarciarsi e a mostrare la vita oltre il velo imposto dalla macchina da presa: dall’appello dei personaggi nasce l’inquadratura dei Dardenne, una forma unica e del tutto nuova che altrimenti non potrebbe esistere.

Rosetta, Il figlio, Il giovane Ahmen si chiudevano su un momento di rivelazione improvvisa e gratuita, mentre le vicende di Jeunes mères creano i presupposti per una trama finalmente ottimista e conclusa, posta però aldilà del film. Se non è grande cinema questo, allora cos’altro?