Un villaggio quasi fantasma di minatori, sole bruciante, pozze d’acqua fangosa, vento che spazza e alza la polvere, una popolazione di uomini abbruttiti, affaticati, disillusi, una certa predisposizione generale a maneggiare i revolver. Un’ambientazione western che necessita di un luogo di aggregazione, fulcro centripeto dell’esperienza comune che consenta la fuga centrifuga delle singole disperazioni: un saloon, in cui si possa bere e giocare e cantare, assistere a qualche spettacolo, magari con la possibilità di condividere la solitudine con le ragazze di un bordello.
Non siamo, però, negli Stati Uniti di fine Ottocento, e nemmeno in Messico, ma nel nord del Cile, ad Atacama, anni ’80 del secolo scorso. Non si cerca l’oro ma il rame, la paura non è quella degli indiani, ma di una peste, e ad accogliere i disperati c’è la cantina di Mama Boa e le sue ragazze dai nomi d’animali, trans e travestite. Flamenco, il fenicottero rosa, ha lunghe gambe, vince tutte le edizioni del concorso di Miss, e alleva un’adolescente abbandonata, di cui si dice madre.
Lei, come le compagne, è accusata di infettare gli uomini di quella peste, soltanto attraverso uno sguardo che spande latteo e spermico contagio. Il giovane regista Diego Céspedes si concede alla fine di esplicitare la natura socio-scientifica di questo terrore in grado di piegare nel corpo, e nella colpa, la mascolinità più rude e primitiva, anche se non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
L’idea di scegliere il registro del realismo magico per provare a dare forma visiva all’AIDS (totalmente speculare a quello horror-necrofilo di Julia Ducournau in Alpha) è completamente riuscita, tanto da conquistare al film il premio Un certain regard, dopo un lungo percorso di progettazione e affinamento, che è un vero cursus honorum di riconoscimento dell’autorialità e della predisposizione ai luoghi del discorso festivaliero: l’idea originale viene sviluppata nel 2019 alla résidence della Cinéfondation di Cannes, poi massa dal Festival di San Sebastian, dal TorinoFilmLab, dal Sundance Institute e dal Gap-Financing Market della Mostra di Venezia.
Sconta una certa programmaticità nella costruzione delle dinamiche binarie di negazione-accettazione: l’uomo innamorato di Flamenco, che si fa ossessivo persecutore, poi irresistibile amante e quindi assassino, il vecchio che prova a “chiudere gli occhi” ai corpi indomabili delle trans e poi si sposa con Mama Boa, e in generale tutti gli uomini che non riescono a uscire dal doppio legame di desiderio e colpa. Perché se c’è una cosa assolutamente sicura, in questa sarabanda colorata e kitsch tutta intrisa di animismo latinoamericano (più che di Gabriel Garcia Marquez e Isabelle Allende) è che i minatori non si avvicinano alle ragazze della cantina per necessità o per bisogno esclusivo (in breve: perché non ci sono altre donne), ma per piacere, desiderio, amore.
La mano pesante dell’eccesso si fa più leggera nel tratteggiare tutto quello che c’è fuori dal mondo raccontato, ai margini, al termine di una delle strade che tagliano il deserto e che conducono verso la città, verso la Capitale, o semplicemente a un villaggio vicino: c’è un mondo di prossimità, perfettamente regolato, a pochi passi, che si potrebbe sfiorare con un dito, dove ci sono donne, bambini, rapporti sessuali generativi, mores.
Non è un racconto di frontiera topografica, ma piuttosto esistenziale: la comunità maschile non è definita dal proprio spazio nella società (un lavoro che li costringe lontano e li stringe intorno a una ricorrenza) ma dall’identità del desiderio, che in qualche modo (idealmente nel Cile degli anni ’80) li ha costretti ai margini, fuori dal campo visivo metropolitana, anche sotto terra.
Lo sguardo più accogliente è proprio quello femminile: nel gender (l’adolescente senza madre, la figlia del vecchio patriarca diventata madre) e soprattutto nell’auto-coniugazione di sé delle trans, che propagano una dolcezza irresistibile.
Questa, in realtà, è l’unica materia e sostanza del contagio: una peste buona, difficile soltanto da accogliere ed accettare, ma non da sperimentare.Il desiderio è sintomatico, l’amore è asintomatico.