Il destino di The Birth of a Nation – il film di Nate Parker che è stato il caso dello scorso Sundance Film Festival vincendo sia il premio della giuria che quello del pubblico, e che ora è uscito nelle sale americane e che ha avuto l’anteprima italiana al Festival del Cinema di Roma – è segnato da tre date lungo più di 150 anni di storia americana: vediamole una per una.
La prima è quella che riguarda le vicende narrate nel film. Siamo a Savannah, Georgia nel 1831: Nat Turner è uno schiavo afro-americano di una piantagione di cotone ma è anche e soprattutto un pastore e un fervente religioso che predica la Bibbia agli altri schiavi neri dei paesi del circondario. È intelligente, alfabetizzato, preparatissimo per quanto riguarda le questioni bibliche, ma soprattutto è un leader nato. Tuttavia man mano che approfondisce i propri studi religiosi, le parole del Vangelo sembrano parlargli direttamente della condizione degli schiavi del Sud e del loro bisogno di redenzione. Il 21 Agosto di quell’anno, a seguito di quelle che lui dice essere delle apparizioni dello Spirito Santo, raduna un gruppo di schiavi neri armati di coltelli, asce e armi da fuoco, che inizia ad andare di piantagione in piantagione a giustiziare proprietari terrieri bianchi e a liberare altri schiavi (molti dei quali si aggiungeranno alla rivolta). Alla fine il computo è di una sessantina di morti tra i proprietari di schiavi della zona, a cui farà seguito una violentissima rappresaglia che prenderà di mira molti neri – indipendentemente dal fatto che avessero preso parte alla rivolta o meno – di diverse zone degli Stati del Sud ben al di là della Georgia e che si concluderà con la cattura e la condanna a morte di Turner stesso.
La seconda è Los Angeles, 1915, data di uscita dell’“altro” Birth of a Nation, quello più celebre diretto da D. W. Griffith di cui il film di Parker tenta genialmente di appropriarsi del titolo: storia romanzata e irrealistica del Ku Klux Klan, che diventerà l’atto di fondazione della Hollywood così come la conosciamo noi ma anche il suo marchio d’infamia razzista e il segno del suo peccato originale white supremacist.
Ma è l’ultima data, il 1999, a Philadelphia nel campus della Penn State University, quella che rischia di segnare negativamente il destino di un film che fino a un paio di mesi fa sembrava avere la strada spianata per la notte degli Oscar. Nate Parker e quello che diventerà poi il co-soggettista del film, Jean McGianni Celestin, vengono accusati dello stupro di una 18 enne compagna di corso. Anche se successivamente assolti (il secondo però solo in appello, dopo una prima condanna di colpevolezza), la vicenda che li riguarda è circondata da diverse ambiguità, non da ultimo il suicidio della presunta vittima avvenuto nel 2012.
Gli Stati Uniti, che hanno una cultura della violenza sessuale particolarmente problematica – che alterna schizofrenicamente esibizioni di ipertrofica sessualità machista a una monumentalizzazione del discorso delle vittime, spesso anche prima delle necessarie verifiche giudiziarie – sono un paese che, giustamente, con un’accusa di stupro non ci va leggero. Naturalmente una sana cultura garantista – per questo, come per ogni altro crimine – dovrebbe evitare ogni gogna mediatica soprattutto nel caso che questa non venga corroborata da prove di incontrovertibile colpevolezza in tribunale. Tuttavia quando Nate Parker si è trovato a rispondere alla stampa di questo enorme scheletro nell’armadio del proprio passato, ha dato al più delle risposte evasive che non hanno fatto altro che aumentare il polverone mediatico attorno a lui e al suo film. Il risultato è stato una campagna di boicottaggio di diversi gruppi femministi e di organizzazioni anti-stupro che ha finito per creare dei danni significativi al film. The Birth of a Nation ha aperto il primo weekend con un modesto risultato di 7.1 milioni a fronte dei 10 e più previsti.
Tuttavia, come ha scritto su The Nation Leslie M. Alexander, docente al Dipartimento di Studi Afro-Americani e Africani della Ohio State University, i problemi di The Birth of a Nation vanno ben al di là delle storie personali di Nate Parker e del suo passato al college, ma riguardano il testo stesso del film e il mondo in cui la cultura afro-americana viene rappresentata. Lo stupro di cui si dovrebbe parlare infatti più che essere quello che riguarda Nate Parker, che fino a prova contraria continua a essere presunto, è quello che si vede nel film e che vediamo essere inflitto da un gruppo di schiavisti bianchi a Cherry, la moglie di Nat Turner, e che segna una svolta fondamentale della storia. È quasi come se la presa di coscienza della necessità della rivolta scaturisse da questo evento più che da una vera e propria maturazione politica che riguarda la propria condizione; come se la rivolta nascesse dall’intollerabilità immediata della violenza subita, e non da una decisione presa liberamente, coscienziosamente e lucidamente.
Film convenzionale ed emotivo, The Birth of a Nation utilizza infatti tutti i “colpi bassi” emozionali più prevedibili per coinvolgere lo spettatore (i bambini, le storie d’amore, gli atti di umiliazioni subita dai personaggi a cui ci si è identificati etc.) e l’efficacia narrativa del film è fuori discussione. Il problema è che nel fare questo finisce per de-politicizzare la figura di Nat Turner e per ridurre la schiavitù a un’espressione pura di violenza e sadismo. Esattamente come per 12 anni schiavo di Steve McQueen, la schiavitù non riesce a essere rappresentata al cinema negli ultimi anni se non nella forma della corporeità e dell’immediatezza: e quindi ecco che anche qui abbondano le frustate, gli stupri, gli atti di violenza e arbitrio che finiscono per ridurre i bianchi possessori di schiavi a un gruppo di sadici e psicopatici.
Il problema è che invece la schiavitù del Sud degli Stati Uniti non era il frutto di una patologia o di un godimento della violenza, ma era un vero e proprio sistema economico complesso e articolato, astratto e impersonale, come lo sono tutte le forme di organizzazione istituzionale. Le istituzioni non vengono prodotte dai singoli, ma sono semmai loro che producono i singoli come effetti del proprio agire. Senza per questo sottovalutare gli atti di arbitrio storicamente compiuti dai proprietari terrieri che senz’altro abbondavano nelle piantagioni del Sud del XIX Secolo, il dispositivo schiavile era però caratterizzato da una violenza più insidiosa proprio perché oggettiva e impersonale: indipendente dalla psicologia dei singoli. Quando ad esempio verso la fine del film la moglie Cherry incontra Nat Turner mentre lui sta scappando della rappresaglia dei bianchi e gli dice una cosa come «stanno prendendo e giustiziando tutti i neri, solo per il fatto di essere neri: vogliono ucciderci tutti!» – dice una cosa effettivamente impossibile. È proprio la sparizione degli schiavi quello che i proprietari terrieri non avrebbero mai potuto fare: perché sarebbe proprio la fonte della loro ricchezza ad essere uccisa se tutti gli schiavi venissero effettivamente giustiziati. Nate Parker insomma pare prendere troppo poco alla lettera il titolo che lui stesso (genialmente) ha dato al film. La storia della schiavitù non è la storia di uno sterminio, è una storia di sfruttamento di inaudita violenza che ha creato le condizioni per l’enorme ricchezza che ancora oggi caratterizza gli Stati Uniti. Sono gli schiavi neri che hanno reso possibile The Birth of a Nation, la nascita della nazione americana.
Ma bisognerebbe anche ricordare che gli elementi di contesto di questo film non si fermano alle questioni controverse. Perché se è vero che The Birth of a Nation ha incassato meno del previsto nel primo weekend di proiezione nelle sale americane, è anche vero che è abbastanza straordinario andare a vedere il dettaglio razziale e sociale che ha costituito il pubblico del film: quasi il 60% erano afro-americani, una percentuale enorme se la paragoniamo a una popolazione americana che vede gli afro-americani essere poco più del 13% (e ancora di meno se consideriamo quella cinematografica). Insomma è impossibile non notare come l’immaginario della rivolta anti-schiavile di Nat Turner sia riuscito a costituire un dialogo esplicito con l’attualità degli Stati Uniti di oggi e in particolare con la condizioni degli afro-americani. Se infatti dovessimo aggiungere un altro luogo e un’altra data senza i quali non sarebbe possibile comprendere il film, dovremmo aggiungere Ferguson, Missouri, 2014 (ma poi anche Baltimore, Charlotte etc.) e tutti gli altri luoghi che in questi ultimi due anni di Presidenza Obama hanno visto salire la rabbia nera nei confronti dei sempre più frequenti casi di violenza da parte della Polizia e in generale di una condizione di gravissima marginalità sociale. Nonostante i limiti cinematografici che senz’altro questo The Birth of the Nation ha, bisogna dargli comunque il merito di essere stato in grado di avere intercettato una questione cruciale per gli Stati Uniti contemporanei. E forse, di avergli anche fornito qualche arma d’immaginario in più. E anche se il film si limitasse a questo, non sarebbe davvero una cosa da poco.