Le idi di marzo, il quarto film diretto da George Clooney, che nel 2011 inaugurò la Mostra di Venezia, sarà trasmesso questa sera, martedì 27 giugno, su Rai 5 alle 21.15. Per l'occasione, riproponiamo una recensione di Federico Gironi n. 508 di Cineforum.
Non siamo più negli anni Settanta, al culmine della grande stagione del cinema liberal dei Robert Redford, dei Sydney Pollack, dei Sidney Lumet. Allora c’era bisogno di una forte carica ideale e idealistica per far fronte alle grandi disillusioni della guerra del Vietnam e dello scandalo Watergate. Oggi abbiamo l’Iraq e l’Afghanistan, la crisi finanziaria e gli scandali sessuali, e le cose sono più complesse. Oggi c’è Barack Obama, la cui retorica appassionata ma fredda e studiata fa il paio con un pragmatismo politico che ha magari deluso quanti in lui vedevano proprio il Grande Sogno di un nuovo idealismo. E allora, ecco che un uomo di cinema liberal dei nostri giorni come George Clooney non può esimersi dal raccontare proprio quella politica, quel pragmatismo riformista destinato a scontrarsi con un Sistema dai meccanismi perversi e difficilissimi da scardinare.
Abbandonate le spinte eroiche di Good Night, and Good Luck e quelle scanzonate e ottimiste di In amore niente regole, con Le idi di marzo Clooney torna a raccontare gli ambigui retroscena del film del suo esordio registico, Confessioni di una mente pericolosa, e abbraccia un (in)cauto pessimismo nella speranza che qualcuno, scosso, possa (fargli) cambiare idea.
Tanto per cominciare, il campo da gioco del film è ristretto alla sola metà democratica. Quel che accade in casa repubblicana non interessa più, bisogna prima mettere a posto in casa propria e poi andare a far le pulci agli altri: è già questa è un’ammissione (pragmatica) che suona come una sconfitta in partenza. Poi c’è un protagonista, l’addetto stampa Stephen Meyers (uomo chiave della campagna elettorale di un governatore democratico impegnato nelle primarie per la candidatura alla Presidenza che sembra tanto un Obama bianco) che sarà impegnato in una discesa agli inferi che lo porterà a scontrarsi col marcio più profondo del mondo in cui vive, ma da un punto di partenza che rappresenta l’elemento centrale del film.
Il Meyers del sempre più bravo Ryan Gosling non è un giovane e puro idealista, è lontanissimo dalle tante figure un po’ ingenue che Hollywood ha raccontato parlando di campagne elettorali di varia natura, dai ragazzi di Bobby, per fare un esempio recente (ché JFK non era Obama, e viceversa). Stephen Meyers è uno che sa che, per ottenere il risultato desiderato (per far vincere il candidato in cui si crede, per far vincere l’ideale) l’idealismo non serve: serve sporcarsi le mani, serve essere pragmatici. Serve saper giocare sporco, a volte. Eppure, non è preparato ai compromessi più degradanti, non riesce a non mantenere dentro di sé la scintilla del Sogno che è destinata a trasformarsi in incubo. Quando si rende conto che le sue piccole scorrettezze sono nulla in confronto a quello che gli altri giocatori della partita sono soliti fare, la scelta per lui è darwiniana: adattarsi o soccombere.
Meyers così cede al Lato Oscuro, uccidendo quel poco di Sogno che segretamente coltivava, adattandosi a un Sistema che pulito non è mai stato ma che, oramai, ha perso ogni senso del limite, del pudore, della dignità. Da questo grado zero della disillusione, Clooney sembra però spingere verso un nuovo idealismo, al recupero di un Sogno.
Per dirla con le parole recenti di Slavoj Žižek ai manifestanti di Occupy Wall Street: «Ricordate: il problema non sono la corruzione, o l’avidità. Il problema è il sistema che vi spinge a cedere». E ancora: «I veri sognatori sono coloro che pensano che le cose possano andare avanti indefinitamente così come sono, con solo qualche ritocco estetico. Noi non siamo sognatori, noi siamo il risveglio da un sogno che si sta tramutando in un incubo».