Stasera alle 21:00 su Iris Vicky Cristina Barcelona, il 39º film di Woody Allen. Ecco la recensione firmata Simone Emiliani uscita su Cineforum 479 del novembre 2008 (pdf acquistabile qui).
Il titolo è già un incrocio istantaneo: vengono uniti i nomi delle due protagoniste con quello della città spagnola che è come attraversata dal loro sguardo. Dietro quello delle due protagoniste però sembra nascondersi lo stesso cineasta. Forse davvero i corpi delle due protagoniste rappresentano un filtro, uno schermo dietro il quale avvertire la sua presenza soggettiva ed emozionale. In questa fase della sua filmografia europea, tranne in Scoop, in cui si vedeva anche la sua proiezione nell’aldilà, Allen è stato soltanto regista e non interprete dei suoi film. Eppure il suo spettro sembra aggirarsi dentro Barcellona. Invisibile ma non distante, sembra di vederlo quasi dall’alto quasi come la figura della madre nel terzo episodio di New York Stories. Non è che Allen si reincarna in uno dei suoi personaggi, con i suoi tic, le sue manie, le sue riflessioni psicanalitiche-esistenziali sui sentimenti. Tanto meno ciò avviene con la figura del pittore Juan Antonio, davvero una tipologia di personaggio lontano da lui, che sembra venuta fuori da quelle commedie hollywoodiane degli anni Cinquanta ambientate in Europa.
Piuttosto il cineasta, come si è visto nel caso delle due protagoniste ma non solo, si nasconde dietro i suoi protagonisti e non si rivela. Mai come stavolta, almeno per quanto riguarda i suoi film realizzati dagli anni Novanta in poi, è così presente. Ciò non vuol dire che si tratta del film migliore che ha realizzato come regista e non come protagonista. Per molti la sua opera più matura e sorprendente dell’ultimo periodo è Match Point. Quel film però, almeno personalmente, appare come un teorema costruito alla perfezione ma glaciale. Vicky Cristina Barcelona mette meglio in mostra le cicatrici delle sue imperfezioni che si possono rintracciare, per esempio, nei raccordi temporali e nelle fratture spaziali. La sua commedia si porta addosso così i segni del tempo. Non li maschera ma quasi li esibisce come se il suo cinema si guardasse allo specchio senza veli. Impietosamente, con un po’ di narcisismo ma anche con una malinconia così intima da essere coinvolgente.
Si porta dietro quindi i segni della metamorfosi la commedia di Woody Allen. Non si tratta di un film così inconfondibile e riconoscibile come potrebbe apparire a prima vista. E neanche così perpetuamente immobile. Anche nei frequenti piani fissi in cui vengono soprattutto filmati i dialoghi a due o a tre persone sembra esserci stavolta un movimento all’interno dell’inquadratura. Rispetto alle commedie dell’ultimo periodo, di rassicurante staticità, fortemente condizionate da una concatenazione di dialoghi che diventavano l’elemento primario nella costruzione del ritmo, Vicky Cristina Barcelona colpisce invece per la sua sfuggevolezza, per quei “salti nel vuoto” che richiamano Hollywood Ending (la cecità provvisoria del regista di quel film segna la condizione di un universo interiore che prende forma anche in quest’ultimo film, negli squarci ambientati dentro la camera oscura) e quei brandelli di cattiveria presenti in Anything Else.
Inoltre, nel modo in cui vengono filmate le instabilità affettive, il film di Allen regala uno dei più intensi ritratti femminili del suo cinema, senza ovviamente la profondità di Un’altra donna ma comunque con la complessità di Hannah e le sue sorelle. Il regista le segue, le pedina, attraversa gli spazi, si perde, si ritrova e si riperde nuovamente con loro. Non c’è un itinerario preciso. Vicky e Cristina vivono uno spaesamento simile a quello della principessa Anna, interpretata da Audrey Hepburn, in Vacanze romane di Wyler. La figura del giornalista di Gregory Peck sembra essersi incarnata in quella del pittore spagnolo Juan Antonio che, con le due ragazze, viene attirato in un vagabondaggio che le porta anche verso Oviedo. Il fascino di Vicky Cristina Barcelona deriva proprio dal fatto di essere anche un film irrimediabilmente vecchio e datato. Ciò può essere evidente anche nello stile (lo schermo che si chiude a iris come una favola d’altri tempi) e anche nell’atteggiamento frenetico del regista che gira ormai ossessivamente quasi un film all’anno come per sfuggire, scappare dal tempo che passa. Però è un film che avvolge e cattura, che porta nuovamente a ridefinire la sua opera. Ora, più che mai, a metà strada tra passato e futuro.