Quando sei nel mondo non puoi tornare indietro, e nel mondo non chiedi di arrivarci, ci arrivi per la volontà, per le scelte di qualcun altro. Era un po’ questo il tema del dialogo a tratti violento e doloroso tra Danilo Monte e suo fratello Roberto, in Memorie, in viaggio verso Auschwitz, un road-doc che risale a cinque anni fa, ma che sta inchiodato nella memoria come se lo avessi visto ieri, un tema semplice e al contempo enorme, un interrogativo antico come la storia del pensiero.
Ora, con Nel mondo, Danilo Monte sembra tornare su quella questione, senza sognarsi di dare una risposta, e lo fa ovviamente a modo suo. In mezzo, lui e la moglie Laura D’Amore hanno documentato proprio il loro confronto con la volontà di generare una nuova vita (Vita nova, 2016), con i tentativi, le speranze, le disillusioni di un processo di fecondazione assistita che pareva non andare mai a buon fine.
Potrebbe sembrare un trittico, quello che si è andato componendo in questi cinque anni, e forse lo è, per noi che abbiamo la necessità di vedere, organizzare le cose, secondo uno schema geometrico latente; ma si tratta innanzitutto dei capitoli, coerenti, di una lettura in soggettiva dell’esistenza, dell’ex-sistere, dell’esserci e dover affrontare la vita (e la morte). Tre capitoli semplici, lineari, quello centrale in scope e a doppia firma – anche se Danilo si è concesso nel frattempo anche una breve divagazione, tornando all’uso della voce over, sull’invisibile compagna, l’emicrania, che lo affianca, impietosa, da tempo, ne Il viaggio di nozze (2017). Tre capitoli semplici perché in fondo è semplice la vita, anche se non è mai facile.
All’alba di un giorno di primavera, nel mondo arriva Alessandro, perché alla fine Danilo e Laura ce l’hanno fatta, e ora hanno un figlio, piccolissimo, indifeso ed energico al contempo come sanno essere i neonati. Laura e Danilo sono di nuovo nel film, ma il film non è esclusivamente su di loro, ora c’è una persona in più; e non è esattamente diario, come non lo è esattamente mai il cinema di Monte, che è piuttosto un cinema diretto alimentato dalla volontà di ricondurre all’esperienza universale un fatto personale, visto e vissuto molto da vicino.
E per riuscirci al meglio, in questo caso, si fa aiutare nella sceneggiatura, nella costruzione drammaturgica del film, dall’amico Alessandro Aniballi. Ecco quindi, a proposito di semplicità, che questo terzo pannello della trilogia è scandito dalla più semplice delle misure calendariali immaginabili, dall’avvicendarsi delle stagioni: nascere, crescere, scegliere, e, fa parte della vita, morire. Ovviamente il soggetto di queste azioni non è sempre il piccolo Alessandro: lui arriva nel mondo ma, complicazione ineluttabile per noi scimmie nude, mentre lui cresce sono i suoi genitori a dover esercitare delle scelte per lui, a doversi confrontare con la vertigine di doverlo fare ed eventualmente sbagliare, interrogarsi sopra i propri errori, sulle proprie fragilità. Quanto alla morte, anche quella arriva, come uno schiaffo di quelli dai quali non ci si riprende facilmente...
È proprio sul principio dell’incertezza, che abita la vita quotidiana di noi tutti (forse) comuni mortali, che lavora Monte, anche dal punto di vista fotografico, focali lunghe, visuale corta, una miopia connaturata all’avventura della vita; è sulla stessa incertezza che gioca il montaggio, come sempre netto, senza orpelli o dissolvenze, questa volta affidato a Johannes Hiroshi Nakajima, che lascia allo spettatore quell’attimo di nero imperscrutabile tra una scena e l’altra, e che esclude praticamente sempre il controcampo, e si concentra sui corpi, sui volti del nucleo famigliare, paradigmatico proprio per il fatto di non avere nulla di eccezionale; e in fondo sono paradigmatici anche i momenti di crisi, di divergenza all’interno della coppia.
Ma semplificazione e paradigmaticità non implicano per forza schematismo né tantomeno mero realismo: l’ambizione è quella di far emergere in maniera poetica, anche attraverso misurate apparizioni delle note dei Giulia’s Mother, il mistero laico dell’esistenza. Lo mostra bene l’epilogo del film: Alessandro, che nel frattempo è cresciuto, si avventura col monopattino su una strada, ripreso di spalle, ma è insicuro, e sembra voler scambiare, per un attimo, il suo gioco con quello del padre (la macchina da presa) anche se la sintassi con cui si esprime è ancora quella sgangherata di chi sta imparando a parlare e che cerca di affidare a poche parole la complessità dei concetti che gli affollano la testa. Ci ripensa. «È mio!», e corre a riprenderselo. Non è il possesso dell’oggetto a essere rivendicato, ovviamente, quanto piuttosto la libertà sognata, di andare avanti, scegliere, sbagliare, che quel monopattino rappresenta agli occhi di un bambino; di un piccolo uomo che può ancora permettersi di sognare.
Come dice sui titoli di coda la Ninna nanna dei sogni di Gianmaria Testa, «E se tu dormi potrai vedere/ la meraviglia che ancora non sai/ la vede soltanto chi dorme davvero/ soltanto i sogni non dormono mai».