È un cinema empatico e rispettoso, quello di Béla Tarr. Empatico nei confronti dell’uomo e della vita; rispettoso dei tempi di questa e del suo naturale fluire. Ripercorrendo la sua carriera, nel corso della masterclass tenutasi a Locarno per “L'immagine e la parola”, sono proprio questi i punti nevralgici su cui ha voluto fare leva, per insegnare – ma senza mai la pretesa di insegnare davvero, attraverso la trasmissione di regole e schemi preconcetti – il suo modo di fare arte, con la consapevolezza di chi si osserva dopo aver ormai abbandonato il campo e la macchina da presa.
“Avevo 22 anni, quando ho girato il mio primo film. Le riprese sono durate cinque giorni e non avevo budget” - esordisce. Quel primo lungometraggio è Nido familiare (1977): giovane, acerbo, ruvido, ricco di movimenti di macchina bruschi, così estremamente lontani da quello che sarà lo stile lento ed elegante che, affermatosi più avanti, renderà noto il regista ungherese. “Il film nasceva dal fatto che amavo profondamente il cinema, e ci andavo spesso, ma mi trovavo di fronte solo a cose false. False erano le storie, falsi gli attori e falsi persino i colori. Tutto era lontano dalla vita e dalla gente. Io invece volevo fare qualcosa che colpisse, che mostrasse, al contrario, com’è la vita vera. Per questo scelsi attori non professionisti e raccontai la storia in quel modo”. Un rapporto d’amore fragile alla cui base, a muovere il giovane Béla Tarr, come lui stesso racconta, era del resto la convinzione che “tutti i problemi del mondo fossero di natura sociale” e che andassero affrontati in un’ottica di rapporti interpersonali e di ambiente. “Poi però ho capito – anzi, ho dovuto capire – che esistono problemi differenti, ontologici, in qualche maniera cosmici”.
Di qui la chiave di lettura di un percorso artistico che, dopo la netta frattura di Perdizione (1988), non ha fatto altro che indagare e sviscerare l’essenza umana, con uno stile e un linguaggio via via più puri e chiari, aventi come capi saldi immediatamente riconoscibili l’uso del bianco e nero e la predilezione per il piano sequenza. Una frattura che viene dall’osservazione di un quadro astratto (una tela bianca con due punti) e dal teatro sperimentale, esperienze che, per sua stessa ammissione, di pari passo con un’indagine filosofica dal carattere fortemente nietzschiano, lo portano a concepire in maniera nuova il tempo e lo spazio. Fino all’eterno ritorno de Il cavallo di Torino, 2011. “Ma poi non mi si venga a parlare di filosofia, mentre sono sul set al freddo, aspettando l’alba” – scherza. Più concreta che mai, la sua visione di tempo e spazio diventa allora solo quella della vita, del suo scorrere, a volte rapido, a volte lento, fino a quegli estremi contenibili solo in un lungometraggio mastodontico come le 7 ore di Sátántangó (1994).
Un modo di fare cinema, seguendo il flusso e la pulsazione della vita, che si riversa su tutti i fattori più pratici e tecnici: contrario a ogni concezione di scrittura cinematografica, Béla Tarr considera gli script necessari solo ad ottenere la fiducia di produttori e finanziatori, e gli storyboard, un impedimento al flusso naturale delle cose. “Serve una struttura, serve un’idea in testa da cui partire, ma serve anche la libertà di modificarla”. Si parte quindi da una serie di carte che delineano le scene principali e le coreografie di base (35 quelle che ha con sé, a delineare l’architettura de Le armonie di Werckmeister), per poi costruire in fieri: “I movimenti della mdp risentono del luogo prescelto; le battute e i gesti degli attori sono liberi, personali. Ecco perché trovare la giusta location richiede mesi; ecco perché, nei casting, ciò che conta non è la professionalità dell’attore, quanto piuttosto qual è la sua personalità e quale la sua presenza sul set. Gli attori devono essere, non recitare. Basti pensare che la mia attrice migliore, Erika Bók (la bambina/ragazza presente in Sátántangó, L’uomo di Londra e Il cavallo di Torino n.d.a.) oggi fa la lavapiatti e vive una vita normale, con due figli”.
In quest’ottica, anche il piano sequenza, che ha reso celebre Tarr, smette di essere una scelta meramente stilistica, per diventare molto di più: “Innanzitutto possiede una tensione speciale, equiparabile forse al sesso migliore o al volo, per cui, mentre lo si sta girando, tutta la crew, dall’attore all’addetto alle luci, resta sospesa, diventa un tutt’uno. Inoltre, è in grado di fondere il tempo e lo spazio: lascia la libertà all’attore di agire, lascia che il tempo scorra… Non è, insomma, necessario tagliare la scena per tagliare l’informazione; basta semplicemente fare una scelta, su cosa mostrare e cosa no, anche nel corso di un’unica ripresa”.
Il film, qualsiasi esso sia, per il regista ungherese, del resto, è come la preparazione di un piatto: “Le storie sono sempre le stesse, fin dall’Antico Testamento. Cambia – e deve cambiare a seconda dell’individualità di chi le gira – il modo di raccontarle”. Idea di fondo, location, cast: questi gli elementi da cucinare, ancora una volta secondo le tempistiche della vita stessa, in parte in solitaria, in parte in team: “Quando si dice il mio nome, non si intende solo me. Io, certo, dirigo e decido, ma al mio fianco ci sono da anni persone che hanno il mio stesso punto di vista sull’esistenza: Lázló Kraszahorkai, Mihály Vig e Ágnes Hranitzky”. Sceneggiatore di tutti i film e ispiratore, con i suoi romanzi, di molte delle vicende narrate da Béla Tarr (da Sátántangó, a Le armonie di Werckmeister, parte centrale di un suo romanzo), il primo; compositore di gran parte delle musiche, il secondo; moglie e co-regista, la terza. “L’editing, una volta scelti e preparati tutti gli ingredienti, diventa una cosa semplice e veloce. Bastano due giorni per montare un film, basta incollare insieme tutte le parti”. Sono l’idea e il “fare sul campo”, contro la post-produzione, contro una forma di “action-cut” concatenati, contro un montaggio capace di interferire e modificare la linea del tempo (così antitetico alla filosofia di un altro ospite di Locarno, Jacopo Quadri). Il “piatto” pronto, infine, subisce la necessità di un accordo tra “cuoco” e “assaggiatore”: “Le ouverture dei miei film, le prime scene, per me, sono come un patto con lo spettatore. Lui può scegliere se restare o se andarsene, ma qualora accetta di proseguire, so per certo che resterà fino alla fine”.
Ogni film è, pertanto, come un viaggio – per quanto lungo e talvolta estenuante - in cui Béla Tarr accompagna il suo osservatore. Ogni film è una tappa di un percorso (equivalente all’intera carriera), via via più profondo, intimistico, legato alla concezione filosofica del tempo e a questioni universali come la caducità della vita stessa, che trova il suo apice ne Il cavallo di Torino, con le sue sei giornate e il suo lento declinare verso l’apocalisse, l’apatia, l’asocialità. “Dopo di quello, che altro avrei potuto fare? Avevo detto tutto, spiegato nel miglior modo possibile la tragedia dell’esistenza che giorno dopo giorno va verso la sua stessa scomparsa. Non avrei potuto fare film migliori, poi. Mi sarei ripetuto, e non lo volevo, perché non ho mai fatto cinema per il denaro o per girare il mondo e i festival. Il mio scopo era far sì che, quando si riaccendono le luci di sala, lo spettatore sia più forte, o magari anche più debole, ma comunque cambiato”.