Vinterbrødre, opera prima del regista islandese Hlynur Palmason in concorso a Locarno, è un film di incrostazioni. Sono incrostati i volti come le enormi tute che avvolgono i corpi dei minatori e non basta il getto d’acqua delle pompe che segnano la fine del turno di lavoro a lavarne via i residui. È incrostato di buio l’interno delle miniere e di luce abbagliante l’esterno solarizzato dal calcare e dalla neve. Sono incrostate di abitudini le vite dei due fratelli protagonisti del film. Incrostazioni che almeno apparentemente non sembrano parassitare né gli spazi, né i tempi della vita dei due in cui i giorni si svolgono sempre uguali costruendo una quotidianità complice e scherzosa che li posiziona in una specie di bolla rispetto alla realtà che li circonda. Si svegliano, salgono sul camion che li porta alla miniera, scherzano, vendono liquore di contrabbando ai colleghi, scherzano, scendono nella miniera, escono, si lavano, attraversano il bosco innevato. E cosi via.
Ma il carattere principale di questo film è l’imprevedibilità e tutto quello che sembra non è poi davvero come appare (lo suggeriscono d’altronde le prime inquadrature, i primi passaggi repentini tra buio assoluto sottoterra e bagliore accecante esterno che suggeriscono – lo si capirà dopo – che forse il pericolo non abita dove sembra).
È il film stesso d’altra parte a essere costruito come una continua sorpresa, un succedersi di improvvise virate; si offre infatti come una commedia dai toni surreali e dalle atmosfere rarefatte, quasi lunari, per diventare invece una specie di inquietante thriller dai risvolti psicologici torbidi e dalle angosce pronunciate con alcuni inserti del tutto alieni e fuorvianti. Progressivamente il ritratto bizzarro e strampalato dei due fratelli che reagiscono all’alienazione della miniera giocando a pisciarsi sui piedi, si trasforma allora in una faida familiare in cui la tensione crescente prende derive inaspettate anche di messa in scena. Il biancore diffuso diventa infatti una specie di trappola che non incrosta più in maniera naturale - come un lichene che vive in simbiosi con il corpo minerale cui sta attaccato - i corpi, i volti e il paesaggio ma li avvolge, li incide, li ferisce, li blocca in un’estraneità contagiosa che mette tutti contro tutti, che rende estranei, irriconoscibili tutti quanti, anche – forse soprattutto e in modo più radicale – i fratelli stessi.