La storia della guerra civile in Siria è tristemente nota, così come gli attacchi dello Stato Islamico al popolo curdo. Notizie che entrano nella nostra vita quotidiana per poi tornare dietro lo schermo, nel mare magnum della cronaca mondiale. Con Filles du Feu, Stéphane Breton decide di portarci dentro il conflitto, inoltrandosi con la sua macchina a mano nelle case e nei luoghi di chi la guerra la vive sulla propria pelle.
L’approccio documentaristico è dichiarato fin dalle didascalie su sfondo nero che introducono il soggetto delle riprese: i combattenti curdi, oppressi da un governo tiranno, incalzati dai turchi da un lato e dall’Isis dall’altro, continuano strenuamente a resistere. Al loro fianco, le donne hanno deciso di imbracciare le armi. «Esse si sono adattate a vivere come gli uomini. Hanno rinunciato a tutto e pagano caro il sacrificio della propria giovinezza. Combattono per la salvezza dei curdi e per la libertà delle donne». Sono loro, le donne curde, le vere protagoniste del film.
Breton osserva la vita di guerra con lo sguardo oggettivo e rigoroso, non perdendo un solo dettaglio di ciò che si offre ai suoi occhi. Ogni minimo gesto viene ripreso con attenzione, perché, in guerra, ogni minimo gesto è cruciale. E così scaldarsi le mani di fronte a un falò, fumare una sigaretta o preparare il tè diventano momenti fondamentali dell’esistenza, attimi che scandiscono una vita altrimenti assopita nella zona grigia tra il sonno e la veglia, dove il giorno e la notte si susseguono senza soluzione di continuità.
Un cinema antropologico nel vero senso della parola, che indaga il reale come solo un antropologo sa fare. Non a caso, Breton è membro del Laboratoire d’anthropologie sociale e docente di antropologia e semiotica del cinema all’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Il regista-antropologo adotta un metodo totalizzante, occupandosi lui stesso delle riprese e del sonoro, seguendo i soldati a Kobane, Al-Hasaka e Minbic, le città nel fulcro del conflitto.
In una terra in cui sono rimasti soltanto cani e bambini, il panorama di un paese mutilato scorre sullo schermo: maceria dopo maceria, in mezzo ai resti di un passato ormai lontano, le donne curde portano avanti la resistenza e organizzano uomini e munizioni. Non c’è tempo per fermarsi, se non per ricordare. Come Diljîn, che rievoca, in una sorta di conta rituale, i compagni e le compagne morti in battaglia, martiri dell’unica causa degna: difendersi e difendere gli altri. Gli edifici fatiscenti si riempiono di memorie, sepolte sotto i detriti, e rivivono negli occhi e nelle parole di chi è sopravvissuto. Ma ecco che è già ora di ripartire, perché, come recita la frase di Tucidide collocata in incipit a mo’ di epigrafe, «Bisogna scegliere: riposare o essere liberi».
Ed è proprio la libertà il fine ultimo per cui si combatte. Tra la vita e la morte, nel rischio costante di un attacco nemico, le ragazze-soldato portano avanti la loro causa. Tute mimetiche, trecce raccolte e foulard a fiori sono la loro divisa, mitragliatrici e razzi le loro armi. Ciò che le spinge a non arrendersi più di ogni altra cosa, però, è un tenace, caparbio attaccamento alla vita. Perciò è ancora possibile abbracciarsi e sorridere tra compagni, prima di una missione. Ride Diljîn, mentre sta per mettersi ancora una volta in cammino e appena prima che la musica accompagni la fine del film. Una musica quanto mai evocativa, L'Oiseau de feu di Stravinsky, un omaggio neanche troppo velato alle "filles du feu" del titolo, fuoco vitale della resistenza curda.
Il valore metaforico dell’accompagnamento sonoro è insito già nelle origini dell’opera, ispirata a una fiaba russa: un mago immortale, simbolo del male, viene annientato dall’Uccello di Fuoco, la forza del bene. Le cupe note del famoso balletto lasciano spazio al rumore delle granate. La battaglia contro il male continua.