Non è semplice parlare di un film quando questi risulta essere un bellissimo oggetto cinefilo, ma senza provocare alcuna emozione, nessun sussulto.
Passata l’ondata postmoderna, o meglio la novità deflagrante che questa portava con sé, negli ultimi anni, anche in letteratura si è ricominciato a parlare di ritorno al realismo. Ora, sempre che sia di qualche interesse distinguere in due macro-categorie di questo tipo qualsiasi opera d’arte, letteraria o cinematografica, c’è da chiedersi quanto il postmoderno abbia ancora da dire, se ridotto a puro gioco combinatorio.
In 9 Doigts di F. J. Ossang (Concorso Internazionale) c’è tutto quello che potrebbe e dovrebbe piacere al cinefilo da manuale. Innanzi tutto il film è girato in pellicola, in 35 mm. È in bianco e nero e ha una fotografia strepitosa, sgranata, che per il cinema di Ossang è un vero marchio di fabbrica. C’è una prima grande citazione da un capolavoro di Raúl Ruiz, Les Trois couronnes du matelot (di cui 9 Doigts è una specie di liberissimo remake), c’è ovviamente l’amato Lautréamont con Les Chants de Maldoror. Ci sono gli attori di culto Pascal Greggory e Diogo Dória, c’è Elvira, presente in tutti i film di Ossang, ci sono Paul Hamy, Damien Bonnard, Gaspard Ulliel e Lisa Hartmann, e una colonna sonora assai raffinata. Infine ci sono le atmosfere de La Jetée di Chris Marker unite a un immaginario noir che fa subito venir voglia di fumare un pacchetto di sigarette (se si è donne meglio col bocchino, da tenere tra dita affusolate e ben curate, dalle unghie laccate…) e di bere litri di whisky senza ubriacarsi mai. Così tra un capitano esaltato, il capobanda che si chiama Kurtz e il protagonista che da vittima diventa complice e poi carnefice seducendo e lasciandosi sedurre dalla femme fatale di turno, abbiamo un film che potrebbe essere lontano parente del cinema di Guy Maddin e che condivide con le opere di quest’ultimo la medesima freddezza.
Intellettualmente una vera caccia al tesoro (ogni citazione, ogni riferimento, sono in effetti delle pepite preziose), emotivamente, però, è siderale. L’eleganza è frigida era il titolo di un bel libro di Goffredo Parise e mai titolo sarebbe più adatto per il film di Ossang, in cui tra cappotti dai baveri costantemente alzati e donne rigorosamente abbigliate in seta, lascia allo spettatore l’impressione di star guardando la versione colta e ovviamente lunga del videoclip di Absolute Beginners, senza però la presenza del magnete che tutto risucchia attorno a sé come un buco nero, ossia David Bowie.
Un problema simile ce l’ha anche Lucky di John Carroll Lynch (Concorso Internazionale), ma in questo caso si tratta di un film per cinefili più di bocca buona, diciamo per cinefili alle prime armi, infatti ha tutti i cliché possibili del film da Sundance. Il protagonista è Harry Dean Stanton, che ovviamente fa Harry Dean Stanton, sullo sfondo un paesaggio da western e la costante sigaretta in bocca. Il film è tutto sommato un omaggio a questo corpo e a questo viso straordinari, che sono commoventi anche senza far nulla, solo per la portata cinematografica che incarnano. Accanto a lui compare David Lynch, che ovviamente fa David Lynch e parla come il Gordon di Twin Peaks, e porta un panama in testa e sembra uscito da un quadro di Edward Hopper. E di passaggio c’è Tom Skerrit e una banda di attori e caratteristi che non fanno che rimandare al cinema indipendente americano. E c’è una donna assai mascolina con tanto di pistola che gestisce un bar e allora come si fa a non pensare a Johnny Guitar di Nicholas Ray. E ci sono le canzoni di Johnny Cash, e soprattutto c’è la voce di Johnny Cash, e c’è il country, e ci sono i tramonti rossi e le albe arancioni, e i cactus, e un inizio che ha la medesima inquadratura di Sentieri selvaggi di John Ford, e l’ironia un po’ surreale made in Usa, e poi c’è il “messaggio” che non problematizza nulla ma anzi scalda i cuori e dunque tra una risata e un momento di commozione, si aggiudica gli applausi della sala.
Allora a controbilanciare questa sfilata di citazioni a effetto è piuttosto interessante imbattersi in un film come Milla di Valérie Massadian (Cineasti del Presente), che sicuramente ha delle ingenuità e non è perfetto, ma non fa sconti, non scende al compromesso con il pubblico, con scene pietistiche o ricattatorie, pur partendo da una storia assai dolorosa – risultando anzi quasi fredda nella messa in scena – e mostrando nel modo più realistico possibile la maturazione di una ragazza giovanissima che deve sopravvivere alla povertà, alla morte del compagno amato, imparando a prendersi cura di un bimbo, quando lei stessa è poco più di una bambina. Probabilmente la forza di questo film è proprio la sua ingenuità, che raggiunge il culmine nel corso di tre inserti che vanno a spezzare il realismo e permettono a Milla un respiro e un’umanità a suo modo poetica.
Ma, allontanandosi ancora una volta dal realismo, è possibile lavorare sul genere, per esempio, per poi uscirne, annullando la retorica citazionista con l’eccesso che vira al grottesco, come nel caso di As Boas Maneiras di Marco Dutra e Juliana Rojas (Concorso Internazionale) che alla figura classica del licantropo associa dinamiche familiari bizzarre, un contesto sociale e un ambiente estremamente caratterizzato, e situazioni al limite del cattivo gusto, riuscendo a ottenere quasi un effetto di spostamento che diventa tanto più efficace quanto più il genere non viene venerato come oggetto cinefilo da mettere in teca, ma completamente stravolto, ottenendo un film originale e liberissimo.