«Gli urbanisti devono occuparsi tanto dell’ambiente quanto dell’individuo: bisogna pensare a un unico discorso formale, che riguardi il mobile, l’appartamento, l’edificio, il quartiere e la città».
Sono parole di Henry van de Velde, tra i maggiori esponenti dell’Art Nouveau, sostenitore di una rivoluzione estetica che coinvolgesse, con pari dignità, ogni elemento progettabile, dagli edifici ai mobili. Una corrente artistica e filosofica, quella dell’Art Nouveau, nata tra XIX e XX secolo con l’intento di "abbellire" le città per i lavoratori della terra che vi si riversavano in massa, riproducendo a loro vantaggio, in ambiente urbano, le forme organiche e sinuose della campagna. Un’utopia destinata a collassare con l’avvento della Prima Guerra Mondiale e dei primi totalitarismi.
È a quella corrente artistico-filosofica che guarda, con disincantato rimpianto, Wes Anderson nel suo Grand Budapest Hotel, tanto che proprio l’amarezza per lo smacco di quel grandioso sogno estetico (ma anche etico) rappresenta la nota più sincera e dolorosa del film. E interessante è notare come il regista texano esprima questo rimpianto per un tempo perduto non attraverso battute di dialogo o manifestazioni "emotive" dei suoi personaggi (le lacrime sembrano bandite dal cinema di Anderson, nonostante non manchino lutti e tragedie), ma attraverso indirette (e suggestive) soluzioni di "decor".
Così, come ne I Tenenbaum la famiglia di Ben Stiller reagiva al lutto per la scomparsa del ‘patriarca’ Gene Hackman vestendo la versione nera della tuta rossa indossata abitualmente, così Anderson – utilizzando ancora una volta quella sineddoche "materiale" di cui parla il critico Matt Zoller – piange gli anni Trenta alternando le immagini del Grand Budapest Hotel all’apice del suo splendore architettonico, con la sua versione decadente e sfregiata degli anni Sessanta, spoglia, sopravvissuta a guerre e regimi vari.
Ricostruito dallo scenografo Adam Stockhausen all’interno di un vecchio department store abbandonato dei primi del Novecento (il Görlitzer Warenhaus di Görlitz, cittadina sassone fra la Germania e la Polonia), il Grand Budapest versione Belle Époque sembra coronare tutti insieme i sogni di Van de Velde: un trionfo dello Jugendstil (la variante germanica dell’Art Nouveau) dall’esterno (ispirato, anche nell’insegna, alle stazioni in vetro e ferro battuto del métro parigino progettate da Hector Guimard) all’immensa hall ricoperta da morbidi tappeti rossi e sovrastata da sontuosi chandelier, dalle monumentali rampe di scale con ringhiere ornamentali al soffitto a cupola realizzato con pannelli di vetro decorato a piombo, dalle decorazioni a stucco che coprono qualsiasi superficie verticale agli archi a tutto sesto, per finire con i mobili, dove spiccano sedie e poltrone in legno curvato a vapore ispirate a quelle che Michael Thonet aveva iniziato a produrre dal 1830.
Il decadimento di questa architettura esemplare è invece spietatamente (e lucidamente) mostrato da Anderson nelle sequenze ambientate negli anni Sessanta: alle pareti assi di legno hanno preso il posto degli stucchi, i tappeti rossi sono stati sostituiti da una consunta moquette arancione e verde lime, nella SPA i muri sono scrostati e le piastrelle scheggiate e annerite, le sedute della lobby sono banali poltrone in finta pelle, mentre negli arredi dozzinali della reception torna quel mix squallido/chic di arancio e verde lime che fa a pugni con la giacca viola (dalle maniche troppo corte) del concierge Jason Schwartzman (mentre il suo illustre predecessore, Gustave H, era talmente intonato al Grand Budapest Hotel della Belle Époque, da dare l’impressione di mimetizzarvisi).
Non è un caso che, accettando di narrare la storia dell’albergo (che poi coincide con la propria) al Giovane Scrittore, il vecchio Lobby Boy di F. Murray Abraham scelga l’ambiente che meno faccia rimpiangere gli antichi fasti: una sala da pranzo allestita in una ballroom, con un grande palco e, sullo sfondo, il dipinto di un paesaggio montano ispirato all’opera di Friedrich.
Enunciato dunque attraverso il declino architettonico del luogo centrale del film, il dolore per il tramonto di un’epoca di grandi slanci estetici e cavallereschi e di commovente dedizione ai propri ideali, trova anche un contrappunto narrativo nella simmetria di due sequenze speculari: in entrambe, il concierge Ralph Fiennes difende la rispettabilità del "proprio" lobby boy immigrato dai sospetti delle forze dell’ordine. Ma, se al termine di quella che si svolge nei primi anni Trenta, riceverà le scuse del capitano della Polizia Militare interpretato da Edward Norton, nella successiva, ambientata all’alba del nazismo, sarà invece, per gli stessi motivi, passato per le armi.