Il Messico è stato tra i protagonisti della diciannovesima edizione del Milano film festival, che gli ha dedicato un piccolo focus comprendente tre film, mentre il concorso ha ospitato altre due pellicole del paese latinoamericano.
Navajazo di Ricardo Silva (già premiato a Locarno 2014 nella sezione Cineasti del presente) ha vinto - ex aequo con The tribe di Myroslav Slaboshpytskiy - il concorso lungometraggi. Si tratta di un’opera che può suscitare controversie, e anche provocare rigetto.
Documentario sui generis, ambientato in quella terra di nessuno che è Tijuana, Navajazo si scontra con il problema centrale di chiunque si confronti con il tentativo di documentare la marginalità, la povertà, la devianza, l’emarginazione: come rapportarsi ad essa? Quale atteggiamento assumere? Da un lato, il rischio è quello di porsi in modo paternalistico, giudicando questa realtà da un punto di vista esterno che si reputa superiore ad essa. Dall’altro, il rischio è quello del compiacimento, morale ed estetico, che può diventare voyeurismo e gratuita ricerca dello shock dello spettatore.
Navajazo è dunque anche una riflessione sullo sguardo del documentarista (il personaggio che appare in un paio di occasioni coperto da un passamontagna ci sembra sia da interpretare come un riferimento ironico e polemico nei confronti del documentario che Gianfranco Rosi dedicò a Tijuana, El Sicario. Room 164).
Il film mischia riprese tradizionalmente documentaristiche, la rappresentazione che di questa stessa realtà viene data da alcuni film di genere a basso costo e sequenze che mettono in questione i confini tra ciò che è documentato e ciò che viene messo in scena, o comunque “manipolato” o influenzato dalla presenza della macchina da presa.
Contrappuntando la violenza e la miseria di Tijuana con le delicate ninne nanna di Albert Pla, Silva rappresenta una realtà di profondo degrado con compassione, facendoci entrare in un mondo che sembra essere stato abbandonato da Dio, popolato da personaggi bizzarri di cui ci mostra il bisogno di amore e la paradossale ricerca di verità.
Purgatorio. Viaje al corazón de la frontera (2012) di Rodrigo Reyes, una delle tre opere del focus, è un altro documentario che cerca vie espressive originali. Anche qui, la realtà che è al centro del film è fatta di degrado, di povertà e di abbandono.
Purgatorio indaga, attraverso le testimonianze di vari personaggi – messicani in procinto di tentare il passaggio negli Usa; americani che aiutano o ostacolano questo passaggio; gente rimasta in uno strano limbo, relitti umani che si aggirano senza direzione – il significato dei confini tra gli stati e le conseguenze che una linea tracciata su una carta geografica può avere una volta che viene trasformata in una barriera che si pone tra gli uomini e le loro speranze. «Non ci sono parole che possano spiegare la frontiera». Confini e frontiere, per questo film in cui dominano immagini di ruderi, di luoghi (tra cui un cinema) e oggetti abbandonati, appaiono come prodotti della violenza che gli uomini esercitano sulla terra e sugli altri uomini, segni della loro hybris, destinati ad essere cancellati dal tempo.
Gli altri film sono invece di finzione. Il più convincente dei tre ci è parso Somos Mari Pepa (2014) di Samuel Kishi Leopo, presentato in concorso. È un bel film sull’adolescenza, età che viene raccontata con partecipazione, ma senza indulgenza o sensazionalismo: si inizia con dei ragazzi che vanno in skateboard ma il Larry Clark di The smell of us, per dire, è lontanissimo.
Lo sguardo di Kishi Leopo è delicato e sensibile, i suoi personaggi hanno dentro una grande energia che però non trova sbocchi e rimane inespressa. Non sappiamo che ne sarà di loro: forse diverranno adulti infelici come il padre di uno di loro, disoccupato e taciturno, o forse no. Il film procede per episodi che spesso si ripetono (il pranzo preparato dalla nonna, ecc.), senza una meta o una conclusione precisa, adottando spesso soluzioni basate sull’anticlimax (forse la figura retorica più adatta a rappresentare l’adolescenza?). L’impegno per partecipare alla “Battaglia delle band” si risolve in un nulla di fatto, la festa si conclude col furto delle scarpe. Malgrado i protagonisti suonino un punk con testi molto espliciti, il film privilegia le mezze tinte e i toni smorzati. Il film si svolge così tra speranze e flâneries inconcludenti, ricerca di svago e lunghi momenti di noia, routine familiari e voglia di scappare. Siamo a Guadalajara, ma potremmo essere ovunque…
Los Ángeles (2014) è un film cosmopolita: si tratta infatti di una produzione tedesco-messicana diretta da un americano – Damian John Harper – che al cinema ha portato il suo bagaglio di esperienze come studioso di antropologia. Il film, parlato in gran parte in zapoteco (una delle tante lingue parlate in Messico oltre al castigliano), è un lavoro curioso che mescola elementi del cinema di genere (thriller) con un’analisi dei legami in una piccola comunità rurale e degli effetti distruttivi che su di essi hanno il denaro e i suoi simboli e la cultura delle gang. Non sempre la recitazione degli attori non professionisti regge adeguatamente la tensione e non mancano momenti didascalici, ma si tratta di un film interessante.
Los insólitos peces gato (2012) di Claudia Sainte-Luce è un film originale nell’approccio che fonde dramma e commedia: la protagonista è Claudia, una ragazza solitaria, che, durante il ricovero per un’appendicectomia, conosce una donna e viene a poco a poco “adottata” dalla sua famiglia. Mentre la malattia della donna (è sieropositiva) si aggrava, Claudia aiuta i componenti della famiglia a mettere ordine nelle loro relazioni, mentre lei trova il sostegno e l’affetto che le mancavano.
La storia, che si sviluppa senza soluzione di continuità rispetto all’incipit onirico, alterna umorismo leggero (le eccentricità della famiglia, il lavoro di Claudia in un supermercato) e tragedia (il declino fisico e la morte della madre). Il film evita una conclusione troppo esplicitamente edificante, ma a volte sembra privilegiare soluzioni di scrittura un po’ facili e non sempre convincenti (come quando, ad esempio, Claudia ferma la secondogenita dall’ingurgitare un frullato di medicinali).
Cinque film molto diversi tra loro, dunque: un piccolo approfondimento, non certo esaustivo ma utile per confrontarsi con una cinematografia che la nostra distribuzione ignora quasi completamente.