Cosa viene prima, il cinema o l’attivismo politico? È probabile che, a questa domanda, Eugene Jarecki risponda che l’attivismo politico ha la priorità e che qualsiasi questione relativa alla forma dei film deve essere subordinata al suo effetto sull’audience.
Come ha esplicitato nella masterclass tenuta al Milano Film Festival (Mff), e come appare del resto chiaro dai tre film che sono stati proposti dalla rassegna milanese, il suo cinema si propone evidenti finalità politiche: mobilitare il pubblico, spingerlo all’azione affinché la situazione “documentata” nel film possa cambiare. It’s up to you: tutti i film di Jarecki è come se si concludessero con questa frase. È come se ogni suo film terminasse dicendo allo spettatore: ti ho mostrato quel che non va nella società e nella politica americane, ora spetta a te – e a me – impegnarti perché le cose cambino.
Sono dunque film che illustrano e descrivono, con modi che stanno tra il saggio storico, il pamphlet e l’arringa processuale, una situazione e che cercano – con la chiarezza argomentativa della voce over, ma anche con l’abilità effettistica del montaggio e della musica – di convincere lo spettatore ad attivarsi per un cambiamento.
Il focus su Jarecki proposto dal Mff comprendeva tre lavori: The trials of Henry Kissinger (2002), Why we fight (2005), The house I live in (2012).
Il primo è un esame della carriera politica di Henry Kissinger. Mettendo insieme materiali di repertorio, interventi di testimoni e di esperti, con una voce over molto tradizionale che tiene il filo della narrazione, il film è una serrata requisitoria nei confronti dell’ex segretario di stato americano (il titolo del film riprende, con una leggera variazione, quello del pesante j’accuse di Christopher Hitchens, per il quale Kissinger è da considerare responsabile di crimini contro l’umanità).
Il documentario illustra in modo particolareggiato il ruolo di Kissinger in Vietnam, in Cambogia, a Timor Est e in Cile. Al termine, la voce del commentatore riassume il senso dell’esposizione: che lo si ritenga o no responsabile di crimini contro l’umanità, l’azione di Kissinger è comunque problematica dal punto di vista democratico dato che è sempre avvenuta al riparo dall’esame e dal controllo pubblici. Focalizzare l’attenzione su Kissinger, significa dunque per Jarecki sottolineare alcune questioni ineludibili circa la “accountability” degli uomini di potere e quindi la sostanza del processo democratico.
Qui sta il punto essenziale del cinema di Jarecki, che è una riflessione critica intorno allo stato della democrazia in America. Tutti i suoi film sono incentrati sul contrasto tra la visione ideale del sistema americano disegnato dai suoi padri costituenti e una realtà politica in cui interessi economici e poteri non responsabili prevalgono sul popolo.
Durante la masterclass, a una nostra domanda sui registi che hanno influenzato il suo modo di intendere il cinema, Jarecki ha risposto citando un solo nome, Frank Capra: «Può sembrare strano che io lo citi come riferimento. I miei film sono percepiti come punti di vista molto forti su temi drammatici e oscuri, mentre nell’immaginario Capra è legato al Natale, ai biscotti, alle esperienze positive. Il punto in comune è che entrambi vogliamo la stessa ‘wonderful life’. Io voglio che gli Stati uniti siano ancora guidati da quello spirito, siano il paese della piccola comunità in cui viveva George Bailey [il protagonista di La vita è meravigliosa, ndr]. Sono però consapevole che è accaduto qualcos’altro e che l’America è stata trasformata dai voraci appetiti del capitalismo». Oltre a ciò, si può poi aggiungere che le tecniche persuasive e argomentative adottate da Capra nella sua famosa serie di documentari di propaganda (Why we fight) sono state sicuramente studiate a fondo da Jarecki, che nei suoi documentari dimostra di saperle applicare con notevole abilità.
A sancire questo legame, Jarecki ha adottato lo stesso titolo dei documentari di guerra di Capra, Why we fight, per il seconda lavoro presentato a Milano. Si tratta di un film che ricostruisce le scelte militari del governo americano nel dopoguerra. Anche qui emerge con chiarezza come le decisioni politiche siano compiute, o fortemente influenzate, da poteri che restano al di fuori del circuito democratico, e che quindi non sono chiamate a rendere conto al detentore della sovranità, ossia il popolo.
Il conflitto tra democrazia e capitalismo è, per Jarecki, la questione decisiva in cui si dibatte l’America. Il film è infatti una illustrazione dettagliata del concetto di “complesso militare-industriale” (ossia l’intreccio di interessi tra politici in cerca di finanziamenti per le loro campagne, lobbies di costruttori di armi e di servizi legati all’attività militare, burocrati ed esperti in cerca di notorietà e spazi di potere) e di come questo si imponga nelle scelte politiche e manipoli l’opinione pubblica.
Nel più recente dei tre film presentati, The house I live in, l’attenzione si sposta sulla lotta alla droga: il film ricostruisce le azioni contro la droga adottate dai governi americani a partire da quando, in un celebre discorso, Nixon dichiarò la droga “nemico pubblico numero 1”. Jarecki evidenzia come queste politiche si siano rivelate inefficaci e abbiano provocato pesanti costi sociali. Anche in questo caso mostra come dietro tali politiche aggressive vi siano interessi “razionali” di imprese economiche e burocrati.
Il film prende posizione a favore di un approccio alternativo, basato sul trattamento delle tossicodipendenze come questione di salute pubblica piuttosto che di criminalità e fondato sul contrasto al circolo vizioso di quei fattori sociali ed economici che, come dice la testimonianza di un giornalista del “Wall Street Journal”, in certi contesti rendono la decisione di spacciare droga un comportamento razionale.
Dal punto di vista narrativo, l’aspetto più originale del film è la presenza in prima persona dello stesso regista – sia come voice over, sia, fisicamente, in alcune sequenze, in particolare quelle in cui racconta lo scenario generale a partire da un caso particolare, quello della governante della sua famiglia, che ha vissuto sulla propria pelle alcuni lutti legati alla droga.
In questo modo mette in scena un percorso verso una maggiore consapevolezza ed esemplifica lo stesso percorso di comprensione che il film intende far compiere allo spettatore, dapprima ignaro dei meccanismi sottostanti ad alcune scelte politiche e, alla fine, consapevole e quindi pronto per un impegno volto a contrastare leggi che si sono rivelate inefficaci e altamente costose, sotto il profilo economico e sotto il profilo umano. Anche in Why we fight vi era un personaggio che, durante il film, compie un percorso di conoscenza e consapevolezza simile a quello che anche lo spettatore dovrebbe seguire (in quel caso si trattava del padre di un ragazzo morto negli attentati alle Torri gemelle).
The house I live in – che, come i precedenti, mescola con grande efficacia effettistica materiali di repertorio, testimonianze dirette (poliziotti, tossicodipendenti, ecc.) e analisi di esperti (storici, psicologi, ecc.) – procede in modo serrato e con capacità persuasiva. Punto debole dell’impianto argomentativo del film ci è però parso l’accostamento volutamente scioccante (e decisamente fuori misura) che emerge a un certo punto tra gli effetti sulla comunità nera delle politiche di contrasto alla droga e i genocidi che hanno funestato la storia del Novecento.
Per tornare alla domanda da cui eravamo partiti, la prevalenza dell’attivismo politico emerge quando, nel corso della masterclass, Jarecki ha in un certo senso minimizzato l’importanza dei suoi lungometraggi («ottengono premi, sono visti dagli smart guys del Sundance, gratificano la mia vanità – ha detto – ma non arrivano al grande pubblico»), dando maggior importanza a filmati di più immediato effetto politico, come ad esempio, un corto presente su YouTube (Just say no to the war on drugs) in cui i punti essenziali dell’argomentazione di The house I live in sono presentati sinteticamente in una forma che ricorda un videoclip: come ha mostrato nel corso della lezione, il video riporta un link a un sito dal quale i cittadini americani possono scrivere una email ai parlamentari del proprio stato per chiedere una modifica delle leggi sul contrasto alla droga. In tal modo, oltre ad arrivare a un pubblico più ampio di quello dei lungometraggi, il video consente di attivare immediatamente un’azione politica.
Si potrebbe aggiungere che questo modo di rapportarsi al proprio lavoro ha implicazioni profonde sul modo di intendere il cinema, poiché porta con sé una ridefinizione del concetto di “opera” e di “autore” come abitualmente li consideriamo nei discorsi sul cinema. Il film, concepito in questo modo, diventa infatti un tassello di una strategia mediatica più ampia, comprendente altre modalità di intervento finalizzate a un obiettivo politico prima che artistico. L’autore del film, a sua volta, diventa parte di un più ampio reticolo di attivisti impegnati intorno a questo obiettivo.
È un cinema che, se osservato unicamente sul piano della riuscita “artistica”, può essere talvolta criticato perché non esente dalla ricerca di “effetti” che mirano a colpire lo spettatore e ad “imporsi” ad esso. Tuttavia, si tratta di un progetto portato avanti con grande coerenza e che dà allo spettatore avvertito elementi non superficiali di conoscenza e di critica della politica americana.