Alain Resnais è stato uno dei più grandi poeti della memoria, non della nostalgia (che è quasi assente dal suo cinema).
La memoria come fenomeno chimico e immaginativo dalle dinamiche imprevedibili, che si nutre della realtà ma la dimentica, la lascia corrodere e sbiadire, imprimendo sulla fisicità di un ricordo una stratificazione di altre immagini arbitrarie dove si confondono desideri, pulsioni, ansie, fobie.
All'inizio di uno dei suoi film più belli, Mon oncle d'Amérique (1980), vediamo scorrere una serie di immagini fisse che ci mostrano oggetti e luoghi di un quotidiano che potrebbe appartenerci: delle ginestre cresciute in riva al mare, un paio di forbici e il filo su un tavolo, la ruota di una bicicletta immobile, una macchina da cucire, la finestra di una casa di campagna, una piccola isola in mezzo alle acque, alcune matrioske, una pipa appoggiata temporaneamente sul bracciolo di una poltrona e altri.
Sono come gli accessori secondari di una storia che deve ancora cominciare e al tempo stesso gli indizi sull'ambiente sociale, l'epoca, il quotidiano dove sono vissuti i personaggi ancora senza volto e senza nome che popoleranno il film. Ma sono anche le tessere sommerse nell'humus dei loro ricordi più antichi, quindi le cose cui hanno imparato ad associare delle parole, dei suoni, insomma l'origine del loro stesso linguaggio, della loro individualità, di tutto quell'insieme di esperienze casuali e volute che li hanno condotti ad essere ciò che sono. Sono oggetti concreti, umili, in buona parte insignificanti e al tempo stesso emblemi di un mondo di ombre e fantasmi che è il passato di ogni personaggio.
A queste immagini, seguono poi i frammenti di due film che non hanno nulla in comune fra loro (né il livello né l'autore né l'epoca) ma soltanto il volto dell'attore che vi campeggia all'interno: Jean Gabin a trentadue anni in La bella brigata (1936) di Duvivier e a cinquantaquattro in Le grandi famiglie (1958) di de La Patellière.
Nei due frammenti, Gabin esprime un'energia diversa: una riflessività introflessa nel primo, uno scatto di nervi nel secondo. Soltanto in seguito sapremo che l'energia opposta di quelle due brevi sequenze di film si è sedimentata nella memoria di René Ragueneau (Gérard Depardieu) con un'intensità di cui è inconsapevole, tanto da essere assurte (con le sequenze di altri gesti, sguardi, azioni e movimenti di Gabin) a veri e propri modelli di comportamento.
Gli oggetti inanimati, con la loro aura evocativa, e le immagini in movimento di un grande attore morto, con il loro carisma ipnotico spettrale, sono alcuni fra i primi lineamenti della fisionomia cognitiva e mnemonica di un io la cui storia sta per cominciare. Resnais ha saputo decantarli, immaginando il teatro intimo di una, due, quattro memorie che tutti noi finiamo per condividere.