Lukas Valenta Rinner ha la cittadinanza austriaca, oltre che quella argentina, e un po’ si percepisce. Si percepisce soprattutto vedendo questo secondo “pannello” di un dittico cominciato nel 2015 con Parabellum, anche le location, a pochi km dal centro di Buenos Aires, sono simili, e identica è l’attenzione alla divaricazione tra uomo e natura, caratterizzata da uno sfuggente senso di disagio che discende più da Haneke che dalle malinconie latinoamericane.
Belén ha 32 anni. Al colloquio per un posto da colf con la sua futura dueña, Diana, si presenta con una bellezza un po’ spenta, bloccata da un trauma non esplicitato (precisa solo «non lavoro più con i bambini», e lo spettatore può solo avanzare le proprie ipotesi); per qualche verso, anche per la postura contratta, sembra un pulcino appena uscito dall’uovo. Il fatto di essere single e risiedere a Buenos Aires pare una condizione rilevante. Quando si avvia a prendere servizio, però, con il progressivo allontanamento dal centro caotico e rumoroso della capitale, una serie di soggettive e semi-soggettive rivela muraglie, recinzioni, sbarre, fili spinati elettrificati, all’occhio allenato si palesa il fatto che il lavoro della giovane donna si svolgerà in una gated community: la chiave d’accesso a questa aggregazione suburbana, di individui e famiglie auto-determinate élite per principio borghese (una forma di arroganza che origina questo e altri fenomeni neo-medievali, come l’abuso dei SUV, infatti evidenziato anche nel presente caso) non rimanda, però, non subito perlomeno, al repertorio di orrori che, per fare un esempio, Rodrigo Plá attribuisce a queste “città nella città” in La Zona o in Un monstruo de mil cabezas.
Valenta Rinner si introduce, attraverso lo sguardo quasi frastornato di Belén, nella struttura di quello che mostra essere tutto tranne che una community: rimanda piuttosto, continuamente, al gate, al fence, al wall, a partire da una vera e propria dogana in miniatura, dove tutti vengono perquisiti, diaframma che separa queste monadi borghesi e plastinizzate dal consesso civile, dalle preoccupazioni e dai disagi della vita contemporanea, come se per qualche ragione si fossero meritati una permanent vacation: peccato, dice Diana al figlio, che non si possa bloccare per bene i rumori.
In questa realtà anodina e asettica (pavimenti di cemento lucidato e quadri minimalisti alle pareti, set di tazze mai spaiati), e il fatto che sia nascosta nel verde non la rende armonica con la natura, el cuarto di Belén è una stanzetta che potrebbe essere ovunque, una gabbietta da cui la dueña può prelevarla a proprio piacimento, nel cuore della notte, per istruirla a fare il the con l’infusore a pinza, che fa da cucchiaio e bustina al tempo stesso: «no somos bárbaros».
È altrettanto una gabbia, una trappola legata ai ruoli di genere, la camera di motel dove il guardiano invaghito di lei la porta: la reazione ai rumori fuori campo, dalle stanze adiacenti, è un automatismo erotico senza gioia e senza vero slancio che intimidisce il ragazzo; Belén trova una via di fuga attraverso un corridoio di servizio. Già, perché, come per la mini-dogana, è tutta una questione di soglie da attraversare, varchi da aprire o falle nel sistema di isolamento: quella nella siepe, attraverso cui la giovane donna entra in contatto, per la prima volta, con quello che accade dall’altra parte, o, banalmente, un cancello dimenticato aperto, sospinto con l’energia della curiosità.
Quel che si trova dall’altra parte è, a sua volta, una comunità-giardino isolata, recintata. E d’altronde, il recinto, il paradeisos, è, fin da Senofonte, la radice metonimica del giardino, un termine che, a proposito di radici, deriverebbe dal sanscrito gar-, har-, che ovviamente ha a che fare anche con il verbo guardare…
Quel che Valenta Rinner vuole evidenziare è che entrambe le comunità, tanto i borghesoni della gated community quanto i naturisti che stanno dall’altra parte cercano, con modalità proprie e diametralmente opposte, di ricostruire un paradiso in terra. Sulla soglia dell’Eden naturista, in cui Belén ha riconosciuto, pur rimanendone turbata al limite dello spavento, un’opzione percorribile, se non una soluzione alla propria castrazione, avviene la sua metamorfosi in sordina, e si presenta ai nuovi compagni, spogliatasi discretamente dietro il bambù, per apparire come una Venere o Eva moderna (ironicamente ispirata a Botticelli) di fronte al gruppo, che fa invece il verso all’Età dell’oro di Cranach (perfino i muretti di mattoni a calce sembrano ricordarlo).
Due idee di paradiso, quindi, di hortus conclusus, due idee di decenza agli antipodi. Ma nemmeno quella, armoniosa e dolcemente freak, dei naturisti è un’idea di convivenza ingenuamente pacifista, «Le infestazioni vanno tenute sotto controllo», dice l’amazzone grassa mentre spara con sicurezza ai pappagalli non autoctoni che si affacciano dall’altro lato a rubare il cibo ad altri animali: l’innocenza è perduta da entrambi i lati dello steccato. Questo non significa che Valenta Renner, e noi con lui, abbia rinunciato a schierarsi. Da questa parte del filo spinato.