Las Lindas, film argentino in concorso, è il saggio conclusivo di Melisa Liebenthal, classe ‘91, per l’Università del Cinema di Buenos Aires, e ne tradisce tutto il carattere acerbo.
Attraverso interviste e materiale privato d’archivio fotografico e video, Liebenthal ricostruisce l’infanzia, la pubertà e l’adolescenza del suo gruppo di amiche dal punto di vista della formazione della loro identità di genere, tra canoni comportamentali contraddittori - non devi essere “facile”, ma non puoi rifiutarti di limonare con i ragazzi popolari per non essere considerata una bacchettona -, interiorizzazioni del giudizio della società – cosa c’è di peggio di essere una donna troppo truccata “ingannando” i propri partner? Si chiedono ancora oggi le ragazze – e diktat incontrovertibili: l’obbligo, se non di essere belle, almeno di piacere a qualcuno, di essere volute, di essere scelte.
È proprio qui che si svela l’immaturità dello sguardo di Liebenthal: a fronte di un’innegabile abilità e di una rara freschezza nell’utilizzo del mezzo documentario, raggiunta approfittando del rapporto intimo preesistente con i suoi oggetti d’indagine e utilizzando una serie di strumenti che Liebenthal come ogni suo coetaneo conosce bene (dalle ricerche su Google alle immagini à la Tumblr, fino all’utilizzo di gif e spezzoni dalla pop culture come commento ironico), la regista si dimostra ancora ingenua nella riflessione su un tema già largamente esplorato e sicuramente di grande attualità di questi tempi. Perché lo sguardo di Liebenthal è in fondo più soggetto alla contraddizione di cui parla di quanto la smaccata ironia e la leggerezza con cui l’affronta non lascino pensare a un primo sguardo. In piena adesione poco riflettuta al postfemminismo, Liebenthal denuncia la sessualizzazione precoce delle ragazze, le imposizioni di mercato per l’ossessione tutta femminile al modello dell’avvenenza fisica (con corredo di spese per la depilazione, i trucchi, fino alle pratiche ortodontiche e correttive dei difetti fisici) e in sostanza la reificazione del corpo della donna, ma la sua analisi rimane superficialmente sociale e smaschera l’introiezione profonda del modello apparentemente criticato.
Non c’è traccia della controparte maschile nel suo film, a parte un brevissimo accenno, tramite foto di gruppo, ai ragazzini più popolari (probabilmente vittime a loro volta di norme e codici di appartenenza a una virilità altrettanto etero-normativa e soffocante, aspetto al quale non si fa alcun cenno), e soprattutto non c’è traccia del desiderio femminile per costoro o per le altre ragazze. Se nelle vite attuali (che pure rimangono sullo sfondo di una ricerca rivolta soprattutto al passato quando non totalmente nostalgica) delle altre twentysomething che intervista sembra possibile cogliere diverse strategie di soggettivazione che emergono a fronte della comune influenza percepita negli anni della crescita (si va da quella che è diventata una modella alla lesbica, fino alla migliore amica d’infanzia, “attrice feticcio” della videocamera della regista durante la preadolescenza, che rifiuta di farsi riprendere), Liebenthal sembra invece ancora cristallizzata nella fase di dover capire chi è, di arrivare a definirsi. Per questo tutto è ancora, come nell’adolescenza, legato al confronto identificativo o (ant)agonistico con le compagne. Liebenthal continua a interrogarsi sulla sua incapacità di essere femminile, di essere convenzionalmente attraente, sul fatto di non piacere a nessuno. Non importa a chi: non c’è una sola parola nel film a rendere conto delle vicissitudini di innamoramento o desiderio vissute dalla ragazza (né dalle sue amiche) nel corso della sua crescita.
L’unico orizzonte d’incontro è percepibile proprio nei video d’archivio, nella gioia e nella libertà che le ragazze sembrano provare in reciproca compagnia. Ma è uno sguardo che resta per questo confinato in dinamiche di soggettivazione narcisistica, in cui grazie all’ambiente protetto e desessualizzato dell’amicizia tra simili è possibile specchiarsi, riconoscersi, eventualmente testare e interpretare per gioco o come “prova generale” tecniche di seduzione e adesione al modello imposto. Il passato di cui parla la giovane argentina è dunque tutt’altro che concluso, tracima nel suo presente, e la sua seduta di terapia di gruppo si rivela più sconfortante di quanto i toni scanzonati e banalmente “arrabbiati” non lascino pensare, facendone una testimonianza non di poco conto sull’asfissia generata dalla nostra società nella costruzione delle dinamiche di genere.