Christine ha ventinove anni e fa la reporter del telegiornale di un piccolo network della città di Sarasota, Florida. Il 15 luglio del 1974, mentre legge il tg in diretta nazionale, cogliendo tutti di sorpresa, estrae un revolver dalla borsetta e si spara un colpo alla nuca. Morirà poche ore dopo. Sulla scrivania dello studio televisivo rimangono alcuni fogli macchiati di sangue sui quali Christine ha scritto un commento giornalistico in terza persona su un “tentato suicidio in diretta tv”.
Esistono almeno tre film sulla vicenda di Christine Chubbuck, due dei quali sono in programmazione qui al Torino Film Festival. Si tratta del mockumentary Kate Plays Christine di Robert Greene presentato in Festa Mobile e di Christine di Antonio Campos, in competizione. Il primo racconta la preparazione del ruolo di Christine da parte dell’attrice Kate Lyn Sheil per un film che non verrà mai effettivamente girato, mentre il secondo è una fiction che ripercorre le ultime settimane di vita della donna sino al momento del suicidio.
Il terzo “film” invece, quello che non ha mai visto nessuno, è la registrazione di quell’ultima apparizione in tv, compreso il momento nel quale la reporter rivolge l’arma contro se stessa e preme il grilletto. Christine stessa, infatti, aveva chiesto – cosa piuttosto insolita per il network – di registrare il notiziario. In realtà non è nemmeno certo che esista un supporto su cui sia incisa la registrazione e, se esistesse, si tratterebbe di un nastro magnetico (una sola copia) rimasto chiuso in una qualche cassaforte del network talmente tanto tempo che, a distanza di più di quarant’anni, ha certamente finito per deteriorarsi.
Che questo nastro sia reperibile o meno e che sia ancora visibile, però, non ha nessuna importanza. Non solo perché nessuno avrà mai la possibilità di guardarlo, ma soprattutto perché una volta saputo che la registrazione esiste (o è esistita) e saputo quello che c’è impressionato sopra, è il fatto stesso della sua “presenza” a decretarne l’assoluto potere. Ancor più della diretta, alla quale assistettero migliaia di persone, è infatti la videoregistrazione a rendere ogni racconto ispirato alla vicenda e ogni reenactment una riscrittura che punta non tanto (o non solo) a rivisitare l’evento reale, nella sua tragicità, ma in maniera specifica a restaurare l’autenticità della sua messa in scena.
Il film di Greene affronta la questione in maniera trasversale scegliendo un punto di vista esterno e contemporaneo. Raccontare Christine attraverso l’attrice che ne prepara la parte, diventa il tentativo di riflettere sul senso della (ri)messa in scena di un evento tanto eclatante e sconvolgente. Purtroppo le risposte che il regista tenta di darsi e sulle quali Kate riflette – la mancanza di rispetto nei confronti della vittima, il fatto di interessarsi al suicidio solo perché raccontato in diretta, la morbosa attrazione verso il video secretato – restano legate a una reazione puramente emotiva alla vicenda. E – come dimostra l’eccesso emozionale che si concentra nel finale – a un tentativo di giustificare l’operazione attraverso uno spiccato slancio empatico. Un’empatia di maniera, però, alla quale è difficile credere e facile, al contrario, restare indifferenti.
La pellicola di Campos invece, con una formula quasi da biopic (seppure le licenze rispetto alla vita della vera Christine non sono poche), ripercorre le fasi cruciali che spingono la ragazza a compiere un atto tanto estremo. Il film si preoccupa soprattutto di produrre una sorta di spiegazione al gesto della donna e di fornire più elementi possibile per comprenderne le motivazioni. Christine è professionalmente insoddisfatta, si scontra in continuazione con il capo, ha un rapporto complicato e conflittuale con la madre hippie; ancora vergine a ventinove anni fatica a intessere relazioni sentimentali e lentamente si fa sopraffare dalla depressione. Come in un’escalation ineluttabile – secondo un principio piuttosto meccanico – viene di fatto suggerito che il risultato a cui si arriva è una specie di inevitabilità. Quello che manca, invece, è un confronto con i temi più urgenti che una storia come quella di Christine mette sul tavolo. E anche se nella ricostruzione degli anni Settanta il regista riesce perfettamente a restituire, anche esteticamente – con una fotografia molto ben calibrata – l’ambiente delle tv e dei canali di infotaiment americani del periodo richiamando tutto l’immaginario a loro collegato, restano sospese le questioni del rapporto fra i media e la società. Questioni che proprio a metà degli anni Settanta iniziavano a porsi all’attenzione dei teorici della comunicazione e che – attraverso le intuizioni di McLuhan – avrebbero influenzato e contribuito a formare buona parte del pensiero postmoderno, a partire dagli studi di Jameson e Lyotard e arrivando fino a Baudrillard. Del resto la possibilità di analizzare un fenomeno tanto ricco di significati e eterogeneità come la morte in diretta e di farlo con il cinema, permette di ragionare contemporaneamente su almeno tre diversi dispositivi mediali (la tv, il found footage e il cinema stesso). E di porre ognuno di questi in relazione con l’idea e la percezione di reale.
Perché quello che ognuno dei (tre) film ci dice è come la prospettiva del cinema, o di qualsiasi dispositivo che crei una mediazione, materializzi dei veri e propri fantasmi. Dentro Christine e ancora di più in Kate Plays Christine si alimenta un immaginario fatto di orrore. La morte, che è il tema principale, domina il racconto, mentre il vampirismo – da sempre associato all’atto del guardare e del nutrirsi di immagini – è portato al suo punto più estremo. Ciò che popola questi film sono dei veri e propri spettri. Come nel ricordo di un incubo il racconto filmico prende le sembianze di una rimozione: ciò che si cerca di mostrare è la rappresentazione di qualcosa che non esiste davvero e che forse nessuno ha davvero visto. La morte di Christine (che anche i testimoni intervistati nel film di Greene sembrano aver rimosso) è un momento che vive di racconti, di ricordi sfumati e di memorie ormai influenzate dal modo in cui sono state tramandate. E che come un sogno viene raccontato e rivisitato in ogni forma possibile, alla cui plausibilità siamo portati a credere, sia che tutto quello gli sta intorno sia vero oppure no. Proprio come una storia di fantasmi.