Nell’opera teatrale Equus vincitrice di un Tony Awards nel 1975, il drammaturgo e sceneggiatore Peter Shaffer si domanda, attraverso il personaggio di Martin, se sia possibile che un cavallo, in momenti che noi non riusciamo a immaginare, raccolga tutte le sue sofferenze fisiche e le trasformi in una sofferenza morale.
È questa la prima riflessione che colpisce lo spettatore durante la visione di Gunda, lavoro prodotto dopo innumerevoli peripezie dalla vegan star di Hollywood Joaquin Phoenix, diretto dal documentarista russso Viktor Kossakovsky e in questi giorni presentato nella sezione Doc/Fuori Concorso del Torino film Festival.
È proprio di questo, in fondo, che tratta il film: della voce silenziosa degli animali, della loro possibilità di parlarci e, soprattutto, della loro capacità di poter soffrire – fisicamente e moralmente. Da questo punto di vista, Gunda si inserisce in un filone cinematografico esploso ormai quindici anni fa con Earthlings (pure al tempo c’era lo zampino di Phoenix) e continuato con tutta una serie di titoli (Okja, Domimion, The Cove, The End of Meat, Cowspiracy, The Last Pig ecc.) che si pone l’obiettivo, più o meno dichiarato, di sensibilizzare lo spettatore nei confronti della violenza e dello sfruttamento animale. A conferma di questo proposito, gli stessi autori di Gunda sostengono che la loro intenzione fosse quella di «voler mostrare come gli animali comunicano. Se guardi da vicino, Gunda ci parla. Non volevo affogare la sua voce» e ancora «Kossakovsky ha dato vita a una meditazione viscerale sull’esistenza che trascende le normali barriere che separano le specie».
Se nelle intenzioni Gunda non si discosta dai suoi predecessori, sicuramente se ne distanzia sotto il profilo formale ed espressivo. Il regista, infatti, decide di seguire la quotidianità della scrofa Gunda e di alcuni maialini adottando quella che gli antropologi chiamano osservazione partecipante. Il tentativo, infatti, è quello di cogliere le cose da un punto di vista interno facendo leva sull’empatia dello sguardo e sulla trasformazione della mdp in un elemento naturale e animale.
Il risultato, complice un incredibile lavoro sul sound design e un utilizzo furbo, ma riuscito, del bianco e nero, è quello che P. T. Anderson ha definito «cinema puro», vale a dire l’immersione in un flusso ininterrotto di immagini in grado di esaltare e restituire il reale per come veramente appare. Si tratta di un’esperienza fenomenologica che prova a mettere da parte ogni artificio intellettuale e che invita lo spettatore a farsi guidare dalle cose (in questo caso dagli animali) stessi. È proprio in questa zona grigia nella quale il nostro sguardo abbraccia e confluisce in quello di altre decine di animali che risuona la celebre domanda di Bentham: «il problema non è "Possono ragionare?", né "Possono parlare?", ma "Possono soffrire?».
Ovviamente gli spettatori più attenti sono consapevoli che vi è sempre una mediazione tra soggetto-oggetto e che quanto viene mostrato sullo schermo è l’esito di una registrazione, di uno scarto immaginifico nei confronti del mondo, ma in Gunda l’effetto di realtà, per dirla con Bazin, è un tranello riuscito e la prossimità che si instaura nei confronti della vita non umana è sincera e toccante.
Tuttavia, benché il tentativo di restituire dignità alla vita animale tramite un cinema puro sia mirabile, il film di Kossakovsky rimane invischiato nella tradizionale struttura antropocentrica dello sguardo dove l’animalità fatica a trovare una propria specificità ontologica. In altre parole: la scrofa Gunda e i suoi maialini ci fanno tenerezza perché proiettiamo in loro qualità e attributi (il senso di maternità, la cura, l’amore, la fraternità ecc) tipicamente umani. A differenza di quanto visto in Space Dogs di Elsa Kremser, per esempio, dove la presenza animale veniva esaltata attraverso un détournement spazio-temporale dato dall’aver lasciato che i cani vagassero per le vie di Mosca con una piccola camera posta sul capo, in Gunda gli animali sono costantemente antropomorfizzati e non vi è nessuna volontà di smarcarsi da questo gioco di proiezioni e identificazioni.
Lo spettatore osserva molti animali ma non prova alcuno spaesamento e l’incontro con lo sguardo non umano, anziché destabilizzare e mettere in discussione le identità di specie, assume i caratteri della colpa (nella scena finale Gunda sembra proprio volerci rimproverare per ciò che ha subito) o eventualmente del possibile riscatto morale (il tentativo di convincere lo spettatore onnivoro che non esiste nessuna carne felice).
Proprio per questo Gunda è forse un grande film, ma riuscito solo a metà.