Concorso

Poppy Field di Eugen Jebeleanu

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C’è un’idea di cinema che a partire dagli anni 2000 ha “colonizzato” il cinema rumeno, rendendolo quel fenomeno nuovo che tutti conosciamo, È un’idea che troviamo spesso classificata come minimalista, anche se ci sarebbe da precisare su cosa sia minimal: se il termine vada riferito all’economia registica adottata da Puiu, Mungiu, Jude e soci, o alla porzione di mondo che la loro macchina da presa cattura, perché in tal caso la contraddizione è palese, trattandosi (quasi) sempre di squarci sulla complessità del contemporaneo e aperture sulle code che la Storia si lascia appresso.

Il rischio che le cifre stilistiche adottate in seno a questa vera e propria scuola, che ormai è perlomeno alla seconda, se non alla terza generazione, diventino maniera, esiste, eccome. Eugen Jebeleanu con il suo primo lungometraggio, Poppy Field si assume questo rischio: in un punto piuttosto avanzato del film, il collega Claudiu dice al protagonista Cristi: «chiunque tu sia, che tu vinca o tu perda, vale la pena di tentare, no?». Certo, è un prelievo suggestivo ma forse un po’ forzato, visto che si tratta di un’affermazione connessa a un’attestazione di rispetto sui generis, da parte del machista Claudiu, di fronte al coraggio di un ragazzo gay che aveva tentato un approccio con lui, a un vespasiano.

Già, perché il soggetto di Poppy Field ruota intorno alla difficoltà di un gendarme omosessuale, Cristi (Conrad Mericoffer), appunto, a vivere apertamente il proprio orientamento e la propria relazione, a distanza, con Hadi, uno steward francese (perdipiù un beur!); una scissione tra libertà nella sfera individuale e negazione/reticenza in quella lavorativa che subisce uno stress test importante durante la proiezione di un film a tematica lesbica, preso d’assalto da un gruppo di sovranisti ultrareligiosi, intervenuti per interrompere la serata. La polizia è già presente, la Gendarmeria, il corpo di polizia militare a cui Cristi fa capo, si aggiunge per sedare la protesta e, almeno teoricamente, garantire le libertà costituzionali (in Romania assai più lasse che da noi, il che è tutto dire), ma, al tempo stesso, non si può certo dire che condivida le posizioni progressiste di chi ha programmato il film e degli spettatori raccolti a vederlo. Cristi si muove come in un campo minato, soprattutto quando si accorge di essere stato riconosciuto da uno degli spettatori venuti per il film. La tensione cresce. Noi subodoriamo che salterà un tappo, non è difficile intuire in che direzione andrà; per “neutralizzare” la persona, che ovviamente gli sta rinfacciando tutta l’ipocrisia di cui è egli stesso consapevole (Mericoffer riesce a costruire con una certa silenziosa intensità i crescenti timori del giovane militare) usa la tecnica peggiore, oltre alla violenza, l’infamia: “l’ho trovato che si masturbava”.

È un film dall’architettura studiata ma non per questo schematica, Poppy Field; studiata anche nell’asimmetria delle parti, nell’ipertrofia dei segmenti. Un’architettura dove ha una centralità assoluta lo spazio della sala, che è un cinema “vecchio stile”, sala di proiezione e teatro, con le poltroncine rosse, il palco e il foyer. Un’architettura dove è importante che, una volta aggirato questo luogo così centrale, ingombrante, il film si chiuda, circolarmente, con un fluidissimo cameracar, a pochi metri da dove è cominciato. Giorno-notte-giorno.

Lasciare fuori dalla sala la gente, questo è quello che vorrebbero i manifestanti. E in fondo la Storia sta effettivamente portando le persone fuori dalle sale (e sembra in questo preciso momento accanirsi più del necessario). Come spesso accade, la discussione non si fa a partire dall’oggetto/film, il film non è nemmeno testo (non scorre nulla sullo schermo), è un pre-testo: qui ci si ispira a vari episodi del genere accaduti in Romania, di cui uno piuttosto famoso, avvenuto nel 2013, ma anche quelli che bloccarono 120 battiti al minuto nel 2018; d’altra parte molti ricorderanno anche i gruppi di preghiera che in Italia impedivano le proiezioni di un film di Godard che nessuno aveva ancora visto, perché l’aveva detto il Papa polacco.

Ma il fatto davvero importante è che, impedita la proiezione, la sala diventa in qualche misura la “scena rovesciata” di un processo alla rovescia. Cristi esce a fumare, e quando riscende le persone sono state evacuate nel foyer dove i manifestanti continuano ad urlare: il ragazzo che ha riconosciuto il poliziotto lo affronta, lo provoca, a margine di quel caos. Cristi si allontana, una panoramica lo segue mentre scompare tra la folla di invasati, con bandiere e immagini della Madonna. Stacco. Comincia un long take, Cristi di spalle, il ragazzo lo ha seguito, e continua a dargli dell’ipocrita. Il poliziotto lo respinge, prima con misura, poi lo atterra con una testata, nella penombra degli interstizi del teatro, in un territorio che verrebbe da definire neutrale. Mentre il ragazzo viene soccorso, Cristi viene trascinato dentro la sala da un collega, e comincia a costruire una propria versione, una propria verità. Stacco. Dall’ingresso opposto della platea entra Mircea (Alexandru Potocean), un collega più anziano, protettivo, per non dire paterno, che concluderà la propria, calcolata reprimenda con un’affermazione che ha il senso perentorio di una triste tautologia: «da questo momento in poi, tu non esisti». Insisto sul découpage di questa scena, due long take (che non sono tecnicamente piani sequenza ma non è certamente questo a indebolirli), non solo perché l’operatore, Marius Panduru, è una “vecchia” conoscenza, avendo lavorato con Corneliu Porumboiu e, da sempre, con Radu Jude, ma proprio perché quell’idea di cinema, essenziale ma non per questo minimale, che evocavamo in apertura si affaccia in maniera vistosa  in questo passaggio attraverso gli spazi ingolfati da un lato e svuotati dall’altro di una sala cinematografica. E non è mero formalismo, è un’idea di regia misurata e a suo modo potente, che spezza una continuità e la accosta a un’altra continuità per contrapporle, contrapporre i caratteri, le ideologie, le strategie, le prospettive dei due personaggi. E per farci constatare che quella sala è svuotata, con Cristi seduto al centro, perché insieme a lui, insieme a Mircea che lo tiene a bada, là dentro c’è un gigantesco, proverbiale, elefante. Tutti i dialoghi, infatti, con i colleghi militari che si affacciano per i controlli più disparati, sono ricamati di allusioni al fatto che tutti in sostanza sanno, o sospettano. Ma fanno quadrato: è innanzitutto nell’interesse della Gendarmeria evitare che scoppi uno scandalo. La tensione è mantenuta alta da quel che avviene fuori campo/fuori scena, dai rumori che arrivano dal foyer, dal fatto che in scena potrebbe irrompere qualcosa che validi quella la verità noscosta, che in realtà già tutti sanno.

Ho insistito sui termini teatrali anche perché Jebeleanu arriva da una formazione e da una relativamente lunga esperienza nel teatro, e perché, come già detto, la sala ha una struttura di quel tipo: questo non vuol dire che Poppy Field sia un film teatrale. Riesce a evitare di esserlo anche quando Mircea, che vorrebbe appunto tutelare Cristi, e che peraltro continua a chiamare confidenzialmente Cristal, evidenziandone la fragilità (che ci voglia riportare nella cristalliera con il già citato pachiderma?) racconta, una deriva aneddotica che si prende quasi dieci minuti di orologio – girata di nuovo in long take con a fuoco il solo narratore – la  storia, in fondo insignificante, di come lui e la sua compagna abbiano avuto dei problemi con un cane trovatello, pulcioso ma carino, forse un maltese, e con una vicina fastidiosa e rompiballe: una sfida squisitamente cinematografica, ora più che mai, visto che la soglia dell’attenzione, a livello globale è appannaggio delle immagini consolatorie di gattini e i cani. A parte questo aneddoto, in Poppy Field l’unica traccia di cani presenti sono giusto dei latrati fuori campo, e, in ogni caso, si stanno azzuffando.