Il 21 maggio 2025 nelle sale italiane è uscito Lilo & Stitch, remake in live action dell’omonimo classico Disney del 2002. Il 13 giugno 2025 è stata la volta di Dragon Trainer, a sua volta remake in live action dell’omonimo successo animato del 2010 targato DreamWorks. Forse non tutti sanno che, tanto il capitolo originale dell’uno, quanto il primo film della celebre saga dell’altro, sono progetti diretti da Chris Sanders e Dean DeBlois. Il primo, recentemente, ha sfiorato l’Oscar con la sua ultima pellicola, Il robot selvaggio (2024). Il secondo, ha preferito invece tornare a cimentarsi con il medesimo immaginario coordinando la cabina di regia anche del Dragon Trainer in live action di recentissima fattura. Ora, scusate il triste gioco di parole, ma dato che in originale il titolo del film è How To Train Your Dragon, risulta semplice affermare che con questo suo nuovo lavoro, DeBlois abbia dimostrato How To Train Your Remake.
Lasciamo per un momento da parte le questioni artistiche, romantiche e ideali. L’animazione è una macchina da soldi, lo è sempre stata. Questi film sono capaci di spostare gli equilibri di un mercato, tanto a livello globale quanto soprattutto all’interno dei singoli bilanci annuali delle major che li producono. Se quindi il nostro palato (più o meno giustamente) non trova affinità nel rivedere le avventure di Biancaneve, Cenerentola, Ariel, Aladdin, Lilo, baby Mufasa e chi più ne ha più ne metta, declinate secondo i dettami dello spietato e algido fotorealismo digitale contemporaneo, è altrettanto vero che la legge del mercato vince sempre e se quindi oggi possiamo serenamente parlare di una moda, di un filone, di un “sotto genere” cinematografico per la frequenza e la risonanza che questi progetti riescono a raggiungere, allora significa che da qualche parte c’è un pubblico pronto ad accoglierli con curiosità e affetto.
La domanda, quindi, per un regista al quale viene affidata una simile sfida, resta quella di interrogarsi su come procedere per condurre la barca in porto. Come trainare (forzando un po’ la traduzione dall’inglese) il proprio drago/alieno/animale/principe che sia. DeBlois ha scelto forse la strada più semplice, ma che si è dimostrata essere anche la più indovinata: restare fedele. E non ci si riferisce tanto al copione o allo storyboard originale (di cui parleremo a breve), ma alla linea editoriale che vi sta alle spalle. Il nuovo Dragon Trainer è il primo esperimento di remake live action della scuderia DreamWorks. La rivale Disney, invece, ne ha alle spalle già in abbondanza. Questa “rincorsa” è stata alla base di tutta la travagliata competizione tra i due colossi. Quando DreamWorks nacque, Disney era già un impero dell’intrattenimento con decadi di produzioni rodate.
Per imporsi come concorrente, per trovare uno spazio all’interno del mercato, Katzenberg all’epoca non optò per l’emulazione, non cercò di imitare il modello vincente di Disney, ma lavorò completamente in controtendenza, creò un’alternativa. Qui sta l’intuizione di DeBlois oggi, si tratta della medesima mossa. Questo Dragon Trainer, infatti, è spaventosamente identico all’originale. Si è optato per una riproduzione praticamente in scala 1:1, una copia carbone bella e buona. Battute, inquadrature, musiche e addirittura le voci (Gerard Butler interpreta Stoick, al quale prestò la voce nella versione del 2010): tutto è ricalcato sul modello originale. Un’operazione così smaccatamente filologica (se possiamo definirla tale), Disney non l’ha mai concepita. I remake sviluppati dalla casa di Topolino sono rivisitati, aggiornati, allungati, modificati. Solo Jon Favreau, agli inizi di questo nuovo ciclo con Il libro della giungla (2016) e Il re leone (2019), aveva provato a intraprendere (seppur più timidamente) questa strada. Ma anche in quei casi il parallelismo non era così marcato. DeBlois invece sa bene di aver lavorato egregiamente quindici anni fa. Sa bene che il film originale è costruito per funzionare ancora oggi. Deve quindi “limitarsi” a rimetterlo in scena, con la potenza degli effetti speciali contemporanei e l’empatia che un volto umano, in carne e ossa, potrà sicuramente dare in scala maggiore rispetto a un tratto animato.
Certamente poi resta valido e stimolante il quesito circa il senso di simili operazioni e la bravura di chi poi effettivamente le firma. Ma siamo sicuri che alla mera copia, ai limiti della “contraffazione” di DeBlois vogliamo preferire l’aggiornamento, senza dubbio più originale, apportato da Dean Fleischer Camp nel nuovo Lilo & Stitch? Se proprio dobbiamo restare ingabbiati nell’età d’oro e non abbiamo modo di avventurarci in nuove sfide e nuovi orizzonti, allora forse è bene ricordarsi che squadra che vince non si cambia. Tenere la linea fino in fondo, senza provare a spacciare i remake come opere ispirate dagli originali ma maggiormente calate nei tempi contemporanei, è una scelta ben precisa che denota una controtendenza ribelle e per questo identitaria, in grado di ricordare che in questo settore c’è spazio per chiunque. Anche per gli eroi (?) sporchi e cattivi della DreamWorks. Tanto oggi, quanto nelle decadi passate.