Il gusto feticista per il doppio si declina in irresistibile appeal sessuale. Black Dahlia è ossessione pura e autocompiacimento, è attrazione fatale per il simulacro, gravitazione attorno a un’immagine di sé, ora replicata sulla pellicola acromatica che registra l’ambizione disperata di un’attricetta alle prime armi, ora incarnata in quella stessa figura – una donna che, dicono, ti somiglia. Eppure il doppio non regge la coesistenza. La sua essenza è nella fusione, e infine nell’autoannientamento – con il rapporto sessuale tra Madeleine ed Elizabeth, con l’ossessione quasi patologica dei due detective per la ragazza morta, con il fatale attaccamento alla sua immagine; fino a una condizione di insostenibilità che culmina nell’eliminazione di ogni sua traccia. Black Dahlia è anche malia del cinema stesso, in un continuo e insistito rimando alla propria decadente bellezza, un fascino che fu – quello dei film muti e in bianco e nero, quello della ormai deserta Hollywoodland, che è set cinematografico ed è pure scenografia della morte (interiore ed effettiva) della Dalia Nera, un appellativo che ritorna, ostinato, a una narcisistica e incontenibile origine noir.