In uno studio pubblicitario lavorano una donna in carriera (la bionda), la sua assistente/amante (la bruna), la segretaria fin troppo fedele (la rossa): c’è una campagna di marketing da realizzare, ci sono uomini che danzano attorno alle protagoniste come in una ronde impazzita, quasi fossero moscerini che sbattono contro lampadine. Passion racconta storie di istinti proibiti e implacabili rivalità, di ambizioni e seduzioni; gioca con gli stereotipi della femme fatale mescolando i ruoli e ribaltando l’abituale litania del voyeurismo maschile fino a ridurla a una subordinazione immobile e passiva. E lo fa attraverso la supremazia della messa in scena, in cui nulla è come sembra e dove la sospensione tra sogno e veglia costruisce un terreno ibrido dove smascherare (o, meglio, mascherare) le pulsioni sommerse. Gli ambienti in cui si muovono i personaggi sono asettici e luccicanti, le superfici levigate e immacolate: stanze trasparenti sporcate dalle bassezze che le attraversano. Passion è un thriller crudele e pieno di feroce ironia, gioca con la manipolazione delle immagini – telefonini, videocamere di sorveglianza, conference calls – con un tono ludico che però ragiona su apparenza e verità come già in Redacted. Un film che spiazza, svia, devia, nasconde e si nasconde; in cui l’erotismo si traveste con maschere e parrucche, in cui il sesso (liquido e pervasivo) è allo stesso tempo fine e mezzo, strumento e arma, sdoppiamento e mistificazione. In questo gioco di specchi si incastona, al centro del film, una magnifica scena di depistaggio sulle note di L’après-midi d’un faune di Debussy. Uno split-screen che contrappone un balletto e la coreografia di un delitto (illusione e racconto, arte e violenza), sottolineando – se ancora ce ne fosse bisogno – il valore assoluto dell’immagine nel suo farsi/mostrarsi, il senso di illusionistico sbandamento che caratterizza il cinema barocco e perverso di Brian De Palma.