In fondo l’ascesa all’Everest è solo una lunga e placida camminata. A differenza di quasi tutte le altre vette che superano gli 8000 metri, infatti, salire il monte più alto del mondo presenta difficoltà tecniche piuttosto ridotte e, di conseguenza, richiede una perizia alpinistica non necessariamente di primo livello.
Anche solo pensare una cosa del genere, naturalmente, è pura follia. Eppure è proprio questo il punto centrale – e il problema fondamentale – che sta alla base di Everest, il film d’apertura di Venezia 72. Se non fosse il racconto di una storia vera – e cioè della spedizione capitanata dal neozelandese Rob Hall che il 10 maggio 1996 tentò di raggiungere il tetto del mondo ma che portò alla morte di otto alpinisti fra cui lo stesso Hall – ci sarebbe quasi da sorridere e rimanere increduli nell’assistere alla serie di errori, sviste e malintesi che il film di Baltasar Kormákur racconta.
Perché il fatto che la montagna più alta fra quelle che superano quota 8000 sia anche la più “facile” da scalare – cosa che Sir Edmund Hillary e buona parte degli alpinisti britannici del primo Novecento (meno fortunati di lui) sapevano (credevano) molto bene – ha illuso numerosi dilettanti dell’alpinismo, proprio a partire dagli anni Novanta, che con qualche intensa seduta d’allenamento in palestra e molti, molti soldi, lassù, più in alto di tutti, in fondo ci si potesse arrivare. Tanto che Rob Hall per primo, e poi tanti altri come lui, hanno costruito un business del quale l’Himalaya tutto, e buona parte delle vette più ambite e celebri del pianeta, risentono ancora oggi.
Ciò che fa restare sbigottiti – e che Into Thin Air, il libro di Jon Krakauer (anche lui membro della spedizione, sopravvissuto) da cui il film è tratto, mette in luce – è la noncuranza con cui, di fronte agli affari, si arrivi a rendere la montagna un bene di consumo alla portata di tutti. Azzerando di fatto la variabile del rischio in nome del denaro. L’ideale della sfida fra l’uomo e la natura, il sogno di spingersi oltre i propri limiti, l’ambizione di raggiungere la frontiera con il cielo per guardare cosa c’è oltre, sono temi che evaporano, si infrangono e si accartocciano contro una realtà fatta di assurdi ingorghi a 7000 metri dove per attraversare un crepaccio ci si deve mettere in fila ad aspettare il proprio turno come al banco dei salumi del supermercato.
Il merito di Kormákur è quello di affrontare la questione senza enfasi alcuna e di lavorare con immagini che sono già da sole di uno splendore unico, esaltandole con un uso del 3D attento e intelligente. Sapendo dare materialità a quel discrimine, sottilissimo, che separa lo spettacolo dei paesaggi e delle vedute dal vuoto dei precipizi e dei burroni. La macchina piazzata sul fondo di un seracco da cui l’azzurro del cielo si percepisce come una strisciolina sottile, l’avanzare del nembo che vomita la tempesta in faccia ai protagonisti, ma anche il commovente silenzio con cui è mostrato l’arrivo in vetta o la freddezza antiretorica con la quale sono raccontate le morti di Doug prima e di Andy poi, sono solo alcuni esempi di questa regia calibrata e rigorosa.
Regia che si avvale di un sonoro altrettanto pertinente ed efficace: il rumore pressoché costante del vento che soffia nella “zona della morte”, che cozza con la quiete (forzata, apparente) delle case di chi aspetta il ritorno dei propri cari, è in alcuni istanti da brividi. Ma a ben vedere fragore e quiete sono due facce del medesimo silenzio, quello di una montagna che, come dice l’alpinista Kazako Anatoli Boukreev nel film, ha sempre l’ultima parola.