"Il popolo, il popolo. Dov'è il popolo?", chiede Aleksandr Sokurov rivolgendosi ai corpi prima immobili, poi cadaveri nei loro letti, di Tolstoj e Cechov.
L'Ottocento si è chiuso, è arrivato il XX secolo, la Russia ha perso le sue guide, e il popolo, il popolo dove è finito? Il popolo non come identità, non come appartenenza anche cosmopolita all'umanità, in un ideale di comunione e condivisione che la Storia ha spazzato, ma il popolo come anima singola e al tempo stesso molteplice, il popolo come anima racchiusa da un volto. Da uno o molteplici volti. Gli stessi volti sperduti dei soldati russi al fronte afghano che Sokurov interrogava silenziosamente in Spiritual Voices (1984), o gli stessi ritratti imbalsamati di gerarchi sovietici che elencava con freddezza e stupore in Elegia sovietica (1989), che in Francofonia, dalla sua casa in Russia o dentro il Louvre, a Parigi, in Francia, nell'Europa di cui in realtà non ha mai fatto parte, osserva nei ritratti dei dipinti alle pareti.
Perché, si chiede ancora Sokurov, l'arte europea ha scavato così tanto nei volti attraverso il ritrattismo, mentre altre culture, come ad esempio l'Islam, non hanno fatto altrettanto? Cosa c'è dietro un volto? E cosa cerca l'arte che quel volto ha catturato? E - ancora e ancora - cosa permette all'arte di sopravvivere? La guerra, come sarebbe potuto accadere a Parigi nel 1940 o a Leningrado durante l'assedio nazista? O forse è proprio la guerra che la protegge, la eleva a trofeo di conquista, a patrimonio comune fra nemici storici?
È fatto di domande, Francofonia, e poi di immagini, di pensieri, di intuizioni, di visioni e di ricostruzioni: un'elegia che Sokurov conduce in modo libero, alla Godard viene quasi da pensare, cercando un senso a ragionamenti rapsodici e difficili da ricondurre a un unico punto.
Tutto nasce dal viaggio sul mare del nord di una nave cargo carica di opere d'arte: le opere nei container sono in pericolo, la tempesta rischia di far naufragare l'imbarcazione, la natura minaccia l'arte. Sokurov, in collegamento via Skype dalla Russia con il comandante, sente una voce lontana, vede immagini pixelate, non capisce, è lontano, al sicuro ma consapevole della tragedia... L'arte minacciata da forze brute, come nel corso della Seconda guerra mondiale, come in Francia, in Germania e in Unione Sovietica, come in Europa e altrove, perché ciò che Sokurov osserva in Francofonia è proprio la radice unica di un continente che esiste grazie alla sua arte, che attraverso la sua arte potrebbe trovare l'anima unica e unificante che ha sempre disatteso, ma che l'arte ha finito per crearla, raggrupparla, concepirla solo attraverso l'atto della guerra, della salvaguardia, della protezione. Mai, veramente, attraverso il silenzio, la sospensione, la solennità dell'esposizione. Gli stesso quadri di Hubert Robert, pittore settecentesco e conservatore del Louvre al centro di un vecchio lavoro di Sokurov di metà anni 90, mostravano la galleria reale ai tempi della sua creazione e già la immaginavano in macerie, diroccata, mutata in vestigia.
Ed è allora la nostalgia per l'anima dell'immagine che Sokurov celebra in Francofonia, nel flusso aperto e libero del film, meno chiuso e soffocante di altri suoi ragionamenti elegiaci, ma anche talvolta più slabbrato, oscuro o fragile di quanto ci si potesse aspettare (come se al film mancasse un pezzo, l'anello che chiude il discorso). Nostalgia per l'anima dell'immagine, ma anche il suo eterno e fiducioso inseguimento. Come quando lo schermo si riempie prima di blu e poi di rosso, e in trasparenza si percepiscono ombre e figure astratte. Linee pronte, si può ipotizzare, a diventare figure.