Jackie è una regina rimasta senza regno.
Appare all’inizio tra due stacchi neri, dentro un accordo musicale che precipita, una distorsione, un tuffo del cuore. La incontriamo al centro di inquadrature perfettamente frontali, nel rigido, formale, campo/controcampo di un’intervista (siamo diffidenti anche noi come lui). La osserviamo mentre vaga tra le stanze e i corridoi della Casa Bianca, luogo che ha amato, sapendo di essere solo di passaggio.
Cosa ricorda di quei giorni? Cosa farà ora? Cosa non rifarebbe più? Chi è davvero la ex signora Kennedy?
Quei giorni (quattro) – raccontati da Pablo Larraín - sono quelli dell’assassinio di JFK e del suo funerale. Ma i flashback non sono una banale ricostruzione lineare di un tragico evento visto da un punto di vista inedito. Ci sono temi, parole, immagini che tornano e ritornano di continuo cambiando la percezione delle cose, stratificando il senso, aggiungendo ambiguità.
La vanità ma anche la dignità di Jackie. Il dolore per la morte del marito e quella per la fine della “favola”. La messinscena di sé e del regno dei Kennedy. La follia – misurata sul mito di Lincoln – della celebrazione funebre con cavalli, carrozza e corteo a piedi, col suo corpo esibito in prima fila, offerto ai colpi di chiunque si rendesse disponibile a completare lo “spettacolo”. La consapevolezza dell’occasione (storica, politica) persa da JFK e l’orgoglio per gli ideali incarnati. L’infelicità della donna che in realtà non aveva un marito e l’orgoglio della regina che raccontava-rappresentava al popolo la tradizione e il significato della storia che si trovava a incarnare.
Jackie che indossa ostinatamente il suo vestito rosa macchiato di sangue, perché tutti vedano, perché il Paese si renda conto, per resistere alla fretta con cui Lyndon Johnson è salito sul trono, come se la morte del suo John non fosse la fine di qualcosa di grande, enorme, forse la fine di tutto (per lei lo è di sicuro). Jackie che cambia un abito dopo l’altro, cercando una nuova impossibile collocazione, provando una diversa rappresentazione di sé.
Jackie che recita Jackie, lontana, dentro l’ulteriore mediazione di uno schermo tv, mentre racconta la “sua” Casa Bianca. Jackie improvvisamente vicina, fragile, specchio di ogni coscienza alle prese con la terribile verità di ogni vita (veicolata da un prete che riscatta in poche parole tutti i dogmatismi medievali, gli integralismi demenziali, le semplificazioni moraliste incontrate in tanti film qui a Venezia): non ci sono risposte, non c’è una storia giusta e definitiva, c’è solo l’ostinazione con cui ricominciamo ogni giorno, e sta qui la grandezza, il coraggio, il senso (sta qui anche Dio, dice lui).
Larraìn costruisce intorno a Natalie Portman (straordinaria) una messinscena limpida, composta, classica, fatta apposta per farci percepire lo scarto di un’emozione violenta (e compressa), la recita che va fuori copione (le parole fuori posto che suonano più vere), lo strappo di un’inquadratura che mette in conflitto storia individuale e collettiva, pubblico e privato, l’America com’è e come si racconta. I materiali di repertorio, soprattutto quelli relativi al funerale, sono perfettamente integrati alla ricostruzione (come già accadeva in No - I giorni dell'arcobaleno), perché quelle immagini – in qualche modo “create” da Jackie – sono parte di quel mito che Jackie ha contribuito a costruire. La storia è aderente alla realtà, ma il film è tutt’altro che un biopic (come non lo era Neruda), a Larraìn non sembra interessare la verità su Jackie (alla fine siamo più confusi di prima), ma la narrazione di sé che ha lasciato, nella sua complessità e umanità.
Quel “fugace momento di gloria” che è stato il governo Kennedy deve molto anche a Jackie, alle sue debolezze, alla sua forza, al suo modo di intendere la vita e l’America. La musica un po’ ridicola di Camelot per certi versi è la traduzione perfetta di un mondo fittizio, costruito, fatto di “bella gente” che aspirava a raccontare la faccia migliore dell’America, che però aveva un suo fascino e una sua nobiltà, una favola che avrebbe meritato un’altra fine.
Ancora un grande film per questo grande regista, che mantiene il suo rigore (etico, stilistico, narrativo) anche affrontando un soggetto pieno di trappole, dentro un contesto produttivo per lui inedito.