Un percorso verso est. Si comincia in Francia, 1942. Olga (la bravissima Yulija Visotskaja, moglie e musa del regista), è un'aristocratica russa, di quelle rifugiate, apolidi, che popolano certi film di Lubitsch, impegnata nella Resistenza e nella solidarietà alle famiglie ebraiche; viene catturata con i suoi compari, e incarcerata. Spetta a Jules (Philippe Duquesne), collaborazionista francese, tutt'altro che irreprensibile, interrogarla per dipanare la sua rete di relazioni: un momento di debolezza, la promessa di uno scambio carnale, di un paradiso fisico ed effimero, potrebbe modificare il suo giudizio.
Germania: Helmut (Christian Clauss), rampollo di una famiglia della nobiltà tedesca, innamorato della cultura russa e della musica, crede di trovare una realizzazione superiore nella piena adesione al progetto nazista.
Fronte Orientale: in un campo di sterminio, Helmut riconosce da un dettaglio fisico quasi insignificante Olga, conosciuta anni prima in Italia. Contro una parete grigia, in pigiama o divisa che sia, Jules, Olga e Helmut commentano le proprie memorie, le proprie ragioni, confessano i propri dubbi, rivendicano le proprie posizioni.
Non è la sinossi del film, non almeno secondo uno svolgimento diacronico. Certi film continuano a lavorare dentro la memoria dello spettatore, anche quando sono imperfetti. A maggior ragione ti costringono a riflettere quando mostrano una divaricazione tra la cura maniacale per il dettaglio della messinscena e i risvolti o trigger narrativi che rischiano di essere liquidati come sciatti o trascurati. È quasi impossibile parlare di Paradise di Andrej Končalovskij senza rischiare lo spoiling della trama, anche perché il rischio sarebbe di giudicare sbrigativamente il ventiduesimo lungometraggio del regista russo, e sarebbe ingiusto. Il lettore si reputi avvertito. I tre percorsi di rielaborazione della memoria al centro del film sottolineano, perlomeno nei discorsi dei due uomini – Helmut soprattutto - la ricerca del paradiso (ray in russo), la possibilità che si possa realizzare in terra, in uno dei periodi più infernali della storia dell'umanità: per Jules è, forse, la tranquillità borghese, i piaceri della carne; per Helmut l'avvento di una nuova era, quella dell'Übermensch, ma anche, nei flashback che illustrano l'incontro, nell'italia degli anni '30, con Olga, un vero e proprio paradiso terrestre, scenario di un'età dell'oro irrimediabilmente perduta. Nella messa in scena di Končalovskij, la commistione tra Kammerspiel e processo verbale, entrambi declinati in maniera sui generis, vincolano l'autore a precise scelte formali, come il ritorno al bianco e nero (un monocromo contrastato e rigorosissimo) e al formato 4:3. Gli a solo, privati di profondità di campo, come fossero girati in un confessionale grigio ma astrattamente luminoso, marcati da un filtro che simula lo scorrere della pellicola, sono in qualche modo debitori de L'istruttoria (1965), capolavoro drammaturgico di Peter Weiss, e costruiti dal punto di vista plastico come ritratti alla Schiele, come primi piani dreyeriani: agli attori è chiesto un esercizio
antinaturalistico, sul mezzobusto, sulle mani, sul volto, che è diametralmente opposto a quello che viene loro richiesto nelle parti più drammatiche, costruite sull'uso della profondità di campo, e del
fuoricampo, con un trattamento degli spazi che sembra rimandare alle origini dell'attività di Končalovskij, al Dyadya Vanya del 1971, e quindi, implicitamente, a quel Checov che torna in maniera esplicita negli studi, nelle predilezioni e nei deliri di Helmut. Profondità e fuori campo sono anche vincolati alla necessità di rappresentare i campi di sterminio mostrando il meno possibile: certo, Končalovskij non è Nemes, e - ma questa è una questione contingente - fa assai
riflettere la visione di Paradise a ridosso di quella di Austerlitz di Losnitsa.
Dal baratro dell'esperienza del campo di sterminio, dell'orrore, dell'inferno in terra, Olga è l'unico dei tre personaggi a non riferirsi mai esplicitamente al concetto di paradiso, tutt'al più a quello di salvezza, e, soprattutto, a quello di colpa: non a caso è il personaggio più torturato e moderno nel suo essere, in sostanza, un'inconsapevole esistenzialista. Quando il dubbio sulla propria scelta, radicale e definitiva, la coglie, il destinatario della sua interpellazione (come di quelle degli altri, d'altronde), nel controcampo negato, non è Dio. Perlomeno non quello col barbone bianco dell'iconografia occidentale. La voce, acusmatica, che scioglie lo sgomento della donna e la conforta è, innanzitutto, quella del regista, narratore onnisciente, primo destinatario della confessione disperata del personaggio (e, ovviamente, della performance attoriale). Quella voce è la sua. La posizione è la nostra.