Ad allargare lo sguardo, e ponendosi un po’ di traverso, si coglie nel programma della Mostra una sorta di sottotraccia parallela, che da Spira Mirabilis si snoda attraverso Dawson City di Bill Morrison e arriva ad Assalto al cielo, del regista romano Francesco Munzi. Si tratta del film di montaggio, che qui palesa le proprie diverse possibilità espressive: se il film di D’Anolfi e Parenti mobilita l’archivio all’interno di un dispositivo testuale complesso, filosofico, Morrison e Munzi ingaggiano invece un dialogo più franco e diretto con la Storia e le sue tracce materiali.
Le similitudini tra il regista americano e quello italiano finiscono tuttavia presto. Se l’uno parte dal racconto storiografico – quello urbanistico e sociale della corsa all’oro e quello della storia della cinema – per ricomporre un ordine e una progressione intorno ai suoi materiali, l’altro si immerge direttamente nelle fonti, nei discorsi e nelle testimonianze, e lascia che siano queste a parlare. L’argomento è il decennio che va dal 1967 al 1977 in Italia: quegli anni che la vulgata e l’immaginazione collettiva vuole di piombo, e che Munzi tenta di riscoprire nella loro interna complessità.
Dagli archivi del Movimento Operaio, da quelli dell’Istituto Luce e dalle Teche Rai emergono tre movimenti, tre blocchi tematici e pressappoco cronologici, in cui si susseguono e affastellano vari filoni della politica e della retorica del periodo. Le rivendicazioni del movimento studentesco all’interno dell’università, i rapporti e contrasti tra gli studenti, la sinistra extraparlamentare e il movimento operaio, gli scontri di piazza con i fascisti o la polizia: gli elementi del quadro sono noti, ma Assalto al cielo sembra più interessato al dettaglio che all’insieme, nel tentativo di dar voce alla dialettica viva, ai fermenti e alle ambizioni di quegli anni, colti nel progredire dagli anni ’60 ai ‘70.
Con l’emergere della lotta armata, poi, il centro del discorso si sposta, e il film sembra concentrarsi sullo sfaldamento – antropologico e identitario – di chi in quegli anni si trovava stretto in un groviglio di cambiamento, violenza e utopia. Non a caso, l’ultimo movimento recupera frammenti da Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro di Alberto Grifi, per esplorare, in quella che venne chiamata la Woodstock italiana, le sfasature del movimento fra edonismo hippie, esproprio proletario e militanza partitica vecchio stampo.
Munzi si sforza di conservare uno sguardo aperto, rifiutando tanto l’agiografia nostalgica quanto la sintesi del giudico storico. Lavorando in modo dialogico, sceglie momenti di dibattito, di interlocuzione, di assemblearismo; momenti in cui è difficile non avvertire l’urgenza della posta in gioco (“ma che repubblica abbiamo fatto?”, domanda un partigiano), come pure la voglia di partecipare a qualcosa di condiviso. L’urgenza, ancora, di misurarsi con una realtà più grande di quella privata. Come sentiamo dire a un ragazzo: ogni mattina mi sveglio sperando che accada qualcosa di grande – magari anche la rivoluzione.
Ecco: la rivoluzione come tensione ideale, e il dibattito come metodo. Questi sono gli assi che circoscrivono la lettura di Munzi dell’Italia di quel periodo, e forse anche il lavoro culturale del film, che arriva a proporre un metodo analogo al suo pubblico, fermandosi letteralmente e invitando per ben due occasioni a spegnere il proiettore e discutere di quanto appena visto.
Se nostalgia c’è, è la nostalgia per un modo di essere e di partecipare, per l’intenzione condivisa di prendere sul serio la cultura e la politica. Finito il film, vale quasi la pena di ascoltare il suggerimento di Munzi, e per una volta, con buona pace di Moretti, riscoprire il dibattito.