Forse l'aspetto più elettrizzante dell'adolescenza è il faticosissimo processo di formazione del proprio gusto personale. Ognuno è perfettamente consapevole di cosa gli piaccia e cosa no, senza però mai capirne veramente il perché. Da qui deriva una genuina, spontanea e certamente inconsapevole visione orizzontale della cultura, che non ha il pregiudizio di distinguere tra alto e basso spessore culturale o estetico per ritenere un qualsivoglia fenomeno meritevole di attenzione o meno. Ogni esperienza, ogni contatto stabilito, ogni stimolo percepito finisce nello stesso calderone, dal quale emergeranno poi, nel tempo, i propri parametri di gusto e sensibilità.
Un periodo della vita pieno di sensazioni e impulsi contraddittori, i quali creano un costante senso di inadeguatezza nei confronti di quasi tutto che si protrarrà fino all'aver imboccato la propria strada.
È esattamente di questo che parla Prank di Vincent Biron, un film che trasmette per tutta la sua durata quell'energia, quelle contraddizioni, quelle sensazioni che tutti hanno vissuto per una breve, folle, parte della propria vita: un racconto di formazione divertente e tragico, che riesce a inserire nello stesso discorso Béla Tarr e Jean-Claude Van Damme, esplosioni di comicità nerissima e momenti di drammaticità profonda, impulsi amorosi irrefrenabili e scatti d'ira, il tutto senza soluzione di continuità. Prank segue il processo di formazione di Stefie, un teenager solitario come tanti, che ad un certo punto della sua vita viene reclutato da Martin, Jean-Sé e Léa per filmare con un cellulare le loro bravate. Lui, che fondamentalmente col gruppo c'entra poco o nulla, segue imperterrito i suoi nuovi amici, mosso da un inspiegabile quanto irrefrenabile bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di amare una ragazza, di compiere dei gesti estremi ed anarchici; li ascolta con avidità quando parlano di Predator e Die Hard, li segue con interesse quando in videoteca scelgono di noleggiare Il cavallo di Torino – "palloso, ma profondo" – e partecipa con entusiasmo quando, stimolati dal film, riflettono sull’“effetto farfalla” e di come defecare su un’auto in corsa potrebbe scatenare la Terza Guerra Mondiale.
Nel mettere in scena questo, Biron dimostra di aver ben chiaro ciò che vuole dire e soprattutto come vuole comunicarlo: emerge infatti la costante sensazione di trovarsi davanti a dei personaggi autentici che interagiscono tra loro in modo incredibilmente sincero; di vivere un racconto ultra cinefilo che non scade mai nella moda del citazionismo gratuito, ma che anzi sa usare ogni riferimento diretto per dare valore e credibilità al racconto. In questo senso è emblematico vedere come il film riesca a fare suo l'insegnamento del già citato ultimo film di Béla Tarr, che non si limita a rimanere un pretesto per costruire una serie di battute, ma diventa una linea guida su cui costruire l'idea di mondo disperata in cui si muovono i personaggi: a far da contraltare alla spensieratezza dei protagonisti, che fanno scherzi senza mai pensare alle conseguenze, c'è un'amarezza di fondo che aleggia tra gli adulti che gli scherzi li subiscono, attori di un mondo che sembra non lasciare più spazio al divertimento. E proprio nel finale, anche per i protagonisti del film, arriva quell'istante in cui tutta quella leggerezza svanisce all'improvviso: senza rendersene conto, sono diventati adulti.