In Vox Lux Brady Corbet torna, a tre anni di distanza dal premiatissimo esordio di L’infanzia di un capo, a ragionare su temi simili – la costruzione di una forma pubblica di potere, la corruzione della storia, la violenza pubblica e privata – incastrando il suo melodramma pop in un periodo simbolico di avvenimenti drammatici. Racconta le stragi scolastiche americane e l’irruzione nel quotidiano degli attentati di massa (passando per l’11 settembre, con un’inquadratura di New York in cui, all’inizio, i grattacieli denotano ancora lo skyline), declinando con sfumature faustiane sempre più scoperte il loro legame con la cultura pop e l’idea stessa di messa in scena.
Girato in pellicola e soavemente illuminato dalla fotografia di Lol Crawley, Vox Lux si struttura in due grandi capitoli (aperti da un prologo e chiusi da una coda), Genesi e Rigenesi, opposti e complementari. Nel primo si racconta, con precisione e senso del ritmo, la nascita di una pop-star (quasi a formare un dittico, a ipotizzare una variazione sul tema del suo primo film) e la sua fama improvvisa, figlia di un massacro destinato a tingerla di nero. La giovane protagonista Raffey Cassidy è perfetta nel costruire il suo personaggio, il rapporto inscindibile ma ambiguo con la sorella (Stacey Martin), a mettere in scena il passaggio brusco da vittima a icona, nella scoperta di sesso e fama, guidata con virile strafottenza da un enigmatico agente (Jude Law), dolcemente ruvido.
Nella seconda parte si ricostruisce il giorno del ritorno pubblico di Celeste (che ora ha il corpo di Natalie Portman, mai così volutamente oltraggiosa, sgradevole, conflittuale, sopra le righe), segnato ancora una volta dal sangue che la sfiora e la riguarda, rendendola idealmente una collaborazionista del Male. L’andamento è più erratico, scollato, incompiuto, enfaticamente iconico: seguiamo la protagonista litigare con tutti, bere, urlare, gestire malamente il rapporto con la figlia (di nuovo Cassidy, a sottolineare la circolarità degli eventi) e la sorella, guardare con distaccato stupore i portatori di morte che uccidono con movimenti coreografati, stilizzati dalla maschera-icona che la riguarda.
Corbet mette in scena il suo mélo con istrionismo e supponenza, usa tutte – ma proprio tutte – le sottolineature stilistiche (controluce, piano sequenza, ralenti) per costruire un ambiziosissimo apologo sulle colpe della spensieratezza, sulla collusione tra la cultura pop di massa e lo spaccio di morte, altrettanto massificato, che ha insanguinato gli ultimi vent’anni. Il risultato è ondivago, affascinante ma vittima di una certa supponenza, musicalmente scisso (con straniante intelligenza) tra il glitter pop delle canzoni scritte dalla cantautrice australiana Sia e la gravità sinfonica della partitura di Scott Walker.
Corbet, come esplicitato dal sottotitolo del film, vuole costruire “un ritratto del XXI secolo”, preconizzato cupamente dalla strage simil-Columbine e pienamente cresciuto nel terrorismo omicida messo in atto (in scena?) da uomini senza volto. Il problema è che, nonostante la scintillante e a volte eccessiva forma, il contenuto è piuttosto lineare, per non dire semplicistico.
Certo di avere molto da dire, il film è in fondo un’allegoria fin troppo ovvia e scoperta sull’imperturbabilità della fama, sulla colpevolezza intrinseca di ciò che distoglie lo sguardo («non voglio che la gente pensi» – declama Celeste – «voglio solo che si senta bene»), sulla corsa verso la catastrofe di un’epoca intera: la denuncia di un mondo soffocato dalle paillettes che ne replica, almeno in parte, l’attraente superficialità.