Concorso

A Herdade di Tiago Guedes

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Una quercia solitaria sul profilo di una collina; un’altra, poco più in là, più alta e maestosa. Un corpo pende da quest’ultima, rigido, inerte. Il padre del piccolo João lo costringe a guardare «Una cosa, quando è finita è finita»: il cadavere è quello di suo fratello, morto suicida, «un debole»; la reazione del bambino è correre verso il lago che è lì accanto, e ritirarsi sull’isolotto di fronte alla riva, sul quale si scorge il rudere di un’architettura fortificata. Un edificio che apparirà di nuovo sullo schermo, ma di cui non vedremo mai l’interno.

È con questo “incidente” iniziale che Tiago Guedes getta le coordinate del suo protagonista: lo vediamo di lì a poco ricomparire adulto (interpretato da Albano Jerónimo), scafato, sposato con Leonor (Sandra Faleiro), e sciupafemmine impunito come i suoi predecessori,  resistente alle ingerenze del potere centrale, politico e militare, e cinico quanto basta per arginare quelle della religione. Eppure sappiamo che qualcosa si è rotto e mai del tutto cicatrizzato, in quella sua fuga innocente, da bambino, qualcosa che rimane segreto, al sicuro, su quell’isolotto. Che è, in fondo, un’isola nell’isola, perché l’immensa proprietà dei Fernandes, a sud del Tago, è un’isola rispetto al Portogallo del tramonto di Salazar e del suo successore Caetano, un’isola di fronte alle mutazioni sociali in atto, alla Rivoluzione dei garofani. E João, che si rivela nei confronti della terra, “custode” comprensivo, se non illuminato, più che proprietario, è un’isola rispetto al sistema privilegiato dell’aristocrazia terriera. A dispetto di quella che potrebbe sembrare un’architettura simbolica complessa, la saga del film di Guedes si offre secondo la più chiara e lineare delle formule narrative. Ma sarebbe un errore scambiarne la semplicità formale e il découpage spesso classico per una concessione al gusto televisivo. Non è “a novela das 8”, la telenovela del primetime. Ma non per questo rinuncia ai codici del melodramma.

Anzi, è proprio un melodramma in un prologo e tre atti, A Herdade, e non nasconde di esserlo. A dispetto del fatto che il termine portoghese moderno identifica una tenuta, una proprietà terriera, l'etimologia rimanda al latino hereditas. E le eredità che affiorano nel film sono tante, e su differenti livelli: quella patrimoniale, appunto, un’eredità che il protagonista cerca di salvaguardare tenacemente, nella sua integrità, dall’assedio della Storia; quella genetica (con le ombre lunghe della follia e dell’incesto); ma anche l’eredità (tradita) della Rivoluzione dei garofani, della democratizzazione del paese – «sono sopravvissuto ai comunisti per farmi divorare dalle banche» dice João all’inizio del terzo atto – ; per non parlare, a livello formale, delle eredità cinematografiche, il Visconti del Gattopardo, fantasma che irradia dalla soffitta della casa padronale, visto di certo attraverso il filtro del Bertolucci di Novecento; ma anche reminiscenze de Il gigante di Stevens e dei mélo di Minnelli.

Un découpage perlopiù classico che racchiude, al centro, un isolotto stilistico, un gioiello di tecnica di ripresa e tempi drammatici, un piano-sequenza barocco nei movimenti e rutilante di luci e colori, alla festa di fidanzamento della cognata (ed ex-amante) di João, Catarina (Victoria Guerra), sulle note di una versione in portoghese di Happy Together dei Turtles, eseguita stancamente da una band locale. Il senso al contempo ironico e drammatico della scena è palese: nell'unità formale, contrappuntata dal testo della canzone, il senso di disgregazione e caduta imminente è fortissimo; Leonor, che è in avanzato stato di gravidanza, è abbandonata in fondo alla sala, a bere, mettendo a repentaglio la creatura che porta in grembo. È la notte tra il 24 e il 25 aprile del 1974, e mentre João e la moglie rientrano poco dopo alla fazenda la radio trasmette Grândola vila morena di José Afonso. Alzano il volume, non oppongono nessuna reazione: la Rivoluzione è iniziata, l’erede non vedrà la luce.

La luce, i colori, cambiano, si spengono man mano che ci si avvia all’ultimo atto: è il 1991. La fazenda si svuota, i braccianti e i collaboratori vanno a cercare lavoro altrove, la cellula di società che ruota intorno ai Fernandes boccheggia sotto i colpi della fine delle ideologie, mentre i segreti di famiglia generano problemi bigger than life.

Nessuna catastrofe è concessa, però, nel sistema ordito da Guedes, solo una chiusura circolare è possibile; una catarsi, un ritorno analitico del protagonista alla fortezza isolata e rassicurante dell’infanzia. Per capire come andare avanti; per ricordare, forse, che nessun uomo, lui incluso, è un’isola.